Rassegnazione e indifferenza
Massimo Crivelli
Arrivati a questo punto di una telenovela sempre più avvilente sorge legittimo il dubbio che del protagonista principale, il Cagliari, non importi più niente a nessuno.
Se in altre città si sarebbero sprecate interrogazioni parlamentari e manifestazioni di piazza per sostenere una squadra costretta a giocare per un anno e mezzo sempre in trasferta (caso unico nella storia del calcio), da noi sembra essere subentrato un misto di rassegnazione e indifferenza non solo fra i principali responsabili delle istituzioni (presidente della Regione, sindaco, prefetto) ma in generale nell'opinione pubblica.
Del caso Cagliari si parla ormai quasi con fastidio, come se il club rossoblù fosse diventato un peso per la città. Frasi stanche e ripetitive, pronunciate a bassa voce come si fa quando c'è un morto in casa, alzate di spalle con risposte scelte da un campionario che più o meno prevede: a) è tutta colpa di Cellino; b) ci sono cose più importanti del calcio; c) ma sì, abbiamo aspettato un anno e mezzo, cosa cambia aspettare qualche altro mese?
Tramontata l'ipotesi della Karalis Arena a Elmas (troppo vicina all'aeroporto e prevista su terreni che facevano gola alla Sogaer), smontato lo stadio di Is Arenas dopo l'inchiesta della Procura con tanto di arresti e carcere per il presidente rossoblù (eppure quell'impianto, per una manciata di partite, si era rivelato nuovo e funzionale...), il reietto Cellino è stato convinto a fare marcia indietro, pentirsi dei suoi e altrui peccati, pagare i debiti col Comune di Cagliari, spendere un'altra paccata di soldi per ritornare (così si disse) entro agosto al Sant'Elia.
Dall'ultima riunione della commissione comunale si viene a sapere che «mancano documenti». In pratica il Comune dice a se stesso (visto che una parte dei lavori spetta proprio all'amministrazione) di essere inadempiente.
In tutto ciò quei pochi fessacchiotti (compreso il sottoscritto) che non si rassegnano a subire in silenzio questa vergogna sono costretti al paradosso di sperare d'essere “riammessi”, prima o poi, in quel tugurio rabberciato alla benemeglio, restando alla mercè di non sa più di chi e che cosa.
Sarebbe questo il famoso orgoglio dei sardi?