Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Nel bizzarro villaggio di Ascanio Celestini

Fonte: L'Unione Sarda
9 dicembre 2008

“Io sono morto quest'anno”, dice il narratore che forse è un po' matto. Se è morto davvero, racconta dal limbo degli innocenti. Se non è morto, è un artista. Non si sa mai, con i matti. Dice anche che è nato negli anni Sessanta, “i favolosi anni Sessanta”. Dove tutto sapeva di sale, soffiava “sapore di mare”, cantava qualcuno. Era un periodo meraviglioso, ma sembra strano che lo fosse anche per lui. Che racconta con le parole di Ascanio Celestini, davanti al tutto esaurito della Vetreria di Pirri.
È chiaro che è La pecora nera . Chiaro che la sua testa è piena di idee, fantasie. E punti di vista. È verboso, un fiume in piena, impasta l'immaginazione e non si vergogna di spargerla a piene mani. Ma chi è? Il padre non lo ha neppure registrato all'anagrafe. Non gli bastava esserci? Conosceremo però il nome di un altro ragazzo, Nicola, che gli somiglia molto. Anzi, forse è proprio lui, nato dalla sua testa. Come se il suo cervello fosse troppo grande per contenere una sola creatura.
In quel villaggio mentale c'è anche una nonna che vive a piedi scalzi e offre a tutti uova da bere che “hanno ancora l'odore del culo di gallina”, e una mamma che non disdegna di masticarti la faccia se il mondo non le va giù. C'è una suora che conosce forse l'astratta carità, ma non la terrena compassione. E c'è una ragazza, Marinella, perché una ragazza ci sarà sempre, dovunque vada la mente. Ovviamente, poiché la vita non cambia mai, ecco anche “Pancotti Maurizio”, un rivale, l'immancabile avversario dell'adolescenza, un “deficiente”. Ma in un altro senso. E, infine, affiora persino Dio. Che magari è solo il direttore del supermercato vicino all'Istituto. Cioè al manicomio, dove viveva la madre, governava la suora, vegetava Nicola.
Non ci sono episodi sensazionali in questo spettacolo che sembra una fiaba. Celestini non fa cronaca, non costruisce un documentario, non pronuncia mai la parola “riforma”. Come una spugna ha assorbito racconti veri e semplici, di chi è entrato e di chi è uscito, di chi ha vissuto e di chi ha ricordato, e ha spremuto il senso, l'atmosfera, persino la magia di un mondo parallelo. Non fa nemmeno sentimentalismo, non fa credere che dietro un muro ci sia un giardino incantato. Ogni tanto, dopo un sorriso o una risata, fa partire brani di testimonianze, parole arrugginite nel registratore, che narrano, per esempio, di elettrodi alle tempie. E parla, per quasi un'ora e mezzo, di caramelle, di colori, di marziani, di ragni ingoiati, di donne e uomini nudi. Di strappi di vita “normale” o sognata o, più spesso, subita. La realtà nel territorio dell'immaginazione. E viceversa.
Celestini non cerca neppure una fittizia unità narrativa, non sarebbe in tono con quei personaggi asimmetrici. Eppure il filo resta teso, a parte qualche perdonabile lungaggine, sino alla fine. L'attore è cresciuto, con tutti i diritti può permettersi di superare l'ora teatrale, come gli altri grandi monologanti di questa epoca, Ovadia, Paolini, Baliani, Paiato. Ha conquistato l'uso magistrale dei tempi, sa sollevare il ritmo quando ce n'è bisogno. E quel suo narrare affascinante ma talvolta troppo monocorde (lo abbiamo visto spesso in Sardegna) ha guadagnato una straordinaria vitalità.
Così regge dolcemente, con una leggerezza angosciante solo se ci riflettiamo, il peso del suo narratore e di Nicola. Applicando anche l'arte del doppio e dell'antitesi: accanto a lui ci sono bottiglie di Coca Cola, scatole di cereali, cartoni di latte e un manichino di donna. È l'ipertrofia del supermercato, sorto vicino al manicomio, il suo contrario, il tutto contro il niente. E chissà dove sta il superfluo. Ma Celestini non cade nella romantica trappola del “dentro si sta meglio”. No, “io non sto più bene né dentro né fuori”. E Nicola e il suo doppio non hanno vinto la paura del buio, “di cui si può anche morire”, come si ripete fino alla nenia. Non è una malattia, il buio: un po' pazzi o un po' no, basta aprire gli occhi e il buio non è mai luce. Forse quel matto è morto proprio per questo.
ROBERTO COSSU

09/12/2008