La casa trasformata in ufficio costa 6000 euro solo di certificati
Vincoli e decreti da 30 anni, appena nove Comuni col Puc in regola
Si paga la “Bucalossi” anche se non si muove un chiodo: per trasformare sulla carta cento metri quadri da abitazione in studio privato occorrono in media 4000 euro soltanto di oneri di urbanizzazione. Capita nella giungla delle leggi del mattone: un cambio di destinazione d'uso da residenza a ufficio comporta una maratona di pratiche catastali e comunali. Tra tasse, elaborati, certificati e parcelle il conto finale arriva a 6000 euro.
LE CASELLE DEI NO Trent'anni di legislazione urbanistica hanno prodotto un'ondata di divieti e di norme al dettaglio, capaci di sfiancare il cittadino più ligio al dovere civico. Perfino dagli stampati da compilare a corredo delle pratiche più banali si capisce l'aria che tira: «Ci viene richiesto, oltre alle precedenti pratiche anche la compilazione di decine e decine di pagine di quesiti su prestampati obbligatori dove sono più numerose le caselle delle opere escluse che quelle da eseguire e di cui si richiede il visto», spiega Fiorella Bellu, già presidente del collegio cagliaritano dei geometri e segretario della commissione delle professioni impegnata a preparare rimedi normativi anti-burocrazia.
L'UFFICIO Stando ai loro resoconti, i tecnici hanno il dente avvelenato: devono farsi portavoce presso i clienti di richieste paradossali degli uffici pubblici (Comuni, ufficio Paesaggio, Soprintendenza tanto per citare le sedi più gettonate). Sostituire l'insegna del negozio? Semplice: la legge richiede all'interessato la presentazione al Comune di pertinenza di un certificato di destinazione d'uso dell'immobile al centro della richiesta. Un pezzo di carta che il Comune possiede già nei suoi archivi, digitali e cartacei. Magari l'originale si trova al piano superiore, in un Municipio di un piccolo centro è nello stesso ufficio, può rilasciarlo l'impiegato della scrivania accanto a chi lo ha richiesto. La procedura è inflessibile: il cittadino deve richiedere un attestato che il Comune ha già. Ovviamente a sue spese: di soldi e tempo d'attesa.
IL PROGETTO Un mostro sta soffocando l'edilizia, la piccola soprattutto, quella della porta accanto. Un esempio raccolto nelle anticamere degli uffici comunali: per cambiare la grondaia di una casa a due piani nel Corso Vittorio Emanuele a Cagliari, il proprietario (un funzionario pubblico in pensione) si è sobbarcato le spese di progetto, disegni, fotografie e pratiche varie quasi fosse il cantiere di un palazzo da restaurare. Doveva ottenere l'autorizzazione paesaggistica. A cento metri dalla sua abitazione si trovano Villa Tigellio e la chiesa dell'Annunziata, due beni da tutelare anche dalla minaccia dei pluviometri in commercio: «Quel proprietario avrebbe fatto meglio a cambiarlo direttamente e arrivederci», commenta un tecnico in lista d'attesa per essere ricevuto. E invece ha impiegato due anni per ottenere il permesso per sistemarlo.
AREE LIBERE Casi limite? C'è di peggio. «Da oltre sette anni», scrive Renzo Contini, «chiedo di poter costruire su un'area di mia proprietà». Non al mare, ma in paese, Solarussa. Il suo lotto ricade all'interno dei cosiddetti “centri matrice”, vale a dire il perimetro tradizionale dei paesi (più ampio del centro storico antico) dove il Ppr targato Soru vieta di edificare se il Comune non si dota di piano particolareggiato. La stragrande maggioranza dei Municipi sardi non ne dispone (solo nove hanno adottato il Puc): «Non si tratta di speculazione, ma nella maggior parte dei casi di abitazioni principali, considerato che queste aree libere sono risultato di vecchi edifici crollati in passato», conclude Contini. Al netto dei buoni propositi, in quasi tutti questi casi i divieti hanno prodotto il degrado dei centri storici e tante disparità. Magari piccole, ma tutte quante insieme fanno una diffusa ingiustizia sociale.
Antonio Martis
martis@unionesarda.it