Debutta questa sera al Massimo di Cagliari la pièce di Ronald Harwood
L'attore torna in Sardegna con “Servo di scena”
“Servo di scena” di Ronald Harwood chiude questa settimana la stagione Cedac al Massimo di Cagliari. La pièce vede il ritorno di Franco Branciaroli, mostro sacro della prosa italiana, dopo l'ammaliante “Don Chisciotte” di due anni fa. «Da un po' indago sugli attori che fanno gli attori, e quello di stasera è un testo perfetto», dice l'attore milanese: «In questa direzione abbiamo allestito anche “Il teatrante” di Thomas Bernhard. Vorrei concludere il mio viaggio con “Enrico IV”».
Lo spettacolo coglie gli istanti finali della vita di un grande capocomico. Quanti capocomici sono rimasti oggi nel nostro Paese?
«Pochi, non più di cinque. Io stesso sono un capocomico. Per il resto è un tirare a campare, compagnie che nascono e si sciolgono, teatri Stabili con spettacoli brevi. La condizione della maggior parte degli attori di oggi è molto precaria».
Cosa la spinge ogni giorno a vivere la vita di un altro?
«L'unica cosa che un attore può recitare con una certa approssimazione alla verità è l'attore stesso. Per me è il desiderio di portare in scena qualcosa che veramente si conosce, e non essere solamente interpreti di un testo».
Bastano belle idee per fare del buon teatro?
«Assolutamente no, l'aiuto dello Stato è necessario. Il teatro in Italia non è mai stato finanziato a sufficienza. Basta guardare quello che succede in Francia e Germania per accorgersi che noi siamo dei miserabili».
Lei è consulente dello Stabile di Brescia: come si trova un attore in questa veste?
«Sconcertato. Il teatro pubblico era stato pensato per portare quegli spettacoli che le compagnie private non erano in grado di fare. Rappresentazioni prive di titoli famosi, ma con tanti attori in scena, invece dei soliti sette. Ora, però, gli Stabili si comportano come le compagnie. Portano in scena titoli famosi, sono composti da pochi attori, cercano disperatamente di fare tournée».
Il teatro è parecchio cambiato da quando ha iniziato.
«Prima era in mano ai registi, ora agli attori. È tornato tra le braccia dei capocomici, proprio perché gli Stabili sono stati depauperati. Io ho iniziato quando il nome dell'attore non era importante, anzi, quelli famosi i registi neanche li volevano. È per questo che è nata una generazione di attori come la mia. Quando i soldi sono diminuiti ed è venuta meno la necessità di grandi registi, il teatro è ritornato ad essere capocomicale. Anche quello pubblico che, stringi stringi, cerca sempre di proporre Shakesperare, Molière o Pirandello, con l'attore famoso e gli allievi che si truccano da vecchi, perché costano poco. Negli anni '60, '70 e in parte '80 il teatro era molto interessante. Poi è iniziato il declino e ora non respira più».
Dario Fo dice che il teatro non va più in tv perché ha perso grinta e valore: è d'accordo?
«Per niente. La tv che una volta ospitava il teatro era quella degli sceneggiati come “Il mulino del Po”. Ora il livello culturale della tv è bassissimo. “Mistero buffo” farebbe cambiare canale alla maggior parte delle persone».
Carlo Argiolas