Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

I libri, energia per le rivoluzioni

Fonte: La Nuova Sardegna
6 novembre 2008

GIOVEDÌ, 06 NOVEMBRE 2008

Pagina 35 - Cultura e Spettacoli


Remo Bodei: la storia ci insegna come le parole possano cambiare i destini del mondo, anche a distanza di anni



Rousseau e Marx hanno influenzato milioni di persone

PAOLO MERLINI

A Cagliari, dove è nato nel 1938, da padre bergamasco e madre di origini fonnesi, Remo Bodei torna appena può. «Tre, quattro volte l’anno, ma sicuramente meno di quanto vorrei», dice il filosofo che da due anni ha lasciato l’università italiana per l’Ucla di Los Angeles, dov’era già da tempo visiting professor come altrove negli Stati Uniti e nel Canada. Un globetrotter del filosofia, Bodei, soprattutto della sua divulgazione, anche nelle forme festivaliere ormai consuete per le manifestazioni culturali. A cominciare dal Festival della filosofia di Modena, dove Remo Bodei è supervisore scientifico. All’insegnamento ha affiancato negli anni la pubblicazione di un gran numero di saggi, tradotti in varie lingue, e di buon successo editoriale, anche perché propongono temi evocativi non solo per gli addetti ai lavori. Come «Geometria delle passioni» o «Destini personali», per citare solo due titoli. Bodei sarà sabato mattina a Cagliari al forum Passaparola che ha per tema «Il potere della parole».
- Si abusa del fatto che viviamo nell’era dell’immagine. Cosa resta alle parole?
«Oggi c’è un’inflazione di parole, ma come sempre esistono quelle che mobilitano e che infiammano, e questo è l’argomento che tratterò, appunto parole e rivoluzioni. Partendo dai libri, cercando di capire come e se incidono sullo scoppio delle rivoluzioni. Io sostengo che in realtà le fanno lievitare, le accompagnano, ma non ne sono la causa immediata. Questo perchè il libro presuppone un tempo per riflettere. E soprattutto che si abbia la capacità di leggere: le rivoluzioni del passato riguardavano masse largamente analfabete».
- Di quali rivoluzioni parlerà nel suo incontro con Marino Sinibaldi?
«Be’, ci sono le rivoluzioni scientifiche, dove i libri hanno un effetto immediato perché si rivolgono a una comunità colta e specializzata. Quanto alle rivoluzioni politiche, mi sono chiesto perché si dice che “scoppiano”. La risposta è che effettivamente questo accade, perché lo spirito umano è una sorta di gas espansivo e infiammabile. Non è sbagliato parlare di una fisica delle rivoluzioni. Per capirlo è utile fare un’analogia tra la rivoluzione francese e una legge della fisica di poco precedente, quella di Mariotte sulla dinamica dei gas. Secondo questa legge se io comprimo un gas riducendolo alla metà, o un terzo o un quarto, la pressione che questo gas eserciterà sulle pareti di un contenitore sarà in progressione aritmetica, cioè il doppio, il triplo e così via. Sul nostro piano, abbiamo lo spirito umano che è appunto pneuma, gas che tende a espandersi spontaneamente verso il meglio. Le pareti invece sono rappresentate dalle istituzioni, lo stato in genere, che per reprimere la tendenza rivoluzionaria dello spirito possono rafforzare e corazzare queste paratie, oppure indebolire lo spirito. Come? Ci sono tanti modi: la repressione, la censura, se penso all’oggi dico con il controllo dell’università. Ovviamente questa compressione dello spirito umano può portare al suo esatto contrario, l’esplosione. La rivoluzione, appunto».
- E i libri che potere hanno in questo processo?
«I libri nell’immediato non incidono nelle rivoluzioni, però le preparano. Hanno la capacità di erodere l’autorità delle classi e dei poteri dominanti. E accaduto con l’illuminismo per quanto riguarda la rivoluzione francese, con il marxismo leninismo per la rivoluzione d’ottobre. Rousseau e Marx sono lì a dimostrarci come teorie che non sembravano aver alcun effetto abbiano poi scalzato la realtà. Mi ha sempre colpito come Il Capitale, un libro difficile e incompiuto, abbia avuto effetto su milioni di persone anche se lo hanno letto in pochissimi. Sembra impossibile che una teoria così ostica abbia cambiato il mondo, eppure l’ha fatto. Ovviamente c’è stata un’opera di forte divulgazione: diciamo che un pensiero complesso è stato ridotto spiegando che conteneva una lotta per la dignità, contro l’oppressione, lo sfruttamento. Forse i libri per avere effetto sulla realtà devono assumere delle vesti mitiche, cioè devono trasformarsi in miti di speranza».
- Lei vive tra l’Italia e gli Stati Uniti. La vittoria di Obama sembra la prova che le parole, «Change - We Can», possano davvero cambiare la realtà.
«Sì, certo. Ma il discorso qui è un po’ più complesso, perché è stato basato su un bombardamento ininterrotto, fatto di comizi, programmi tv, spot da cinque milioni di dollari come quello di Obama. A questo si aggiunga l’uso di internet come mai era accaduto, addirittura degli sms. Il problema è che le parole valgono solo se trasmettono qualcosa, e riescono a innestarsi su miti, desideri e speranze delle persone. Altrimenti diventano ripetizioni di banalità che scivolano come acqua sul marmo».
- È per questo che lo slogan «We Can», italianizzato o addirittura romanizzato, da noi non ha avuto successo?
«Se po fa’ non ha funzionato perché quando c’è l’originale le copie sono sempre sbiadite, come la carta carbone».
- È un giudizio critico sul Partito democratico, alle cui posizioni lei comunque è vicino?
«Sì, sono vicino, ma criticamente. Ne capisco il travaglio. Ma credo che il problema oggi sia quello di contrapporsi credibilmente e non in maniera retorica. Dunque le parole contano, ma servono proposte alternative, criticare e spronare il governo su fatti concreti. Prenda la questione della scuola, per esempio. Non certo i grembiulini, o il voto in condotta che, diciamocelo, fa anche bene. Il problema è che attraverso questi spot, mettendo avanti aspetti secondari, si nasconde qualcosa di ben più importante che sono i tagli alla scuola, la riduzione del peso di ciò che è pubblico a favore del privato. O l’università: è vero che c’è una grande quantità di corsi di laurea, forse fatti più per i professori che per gli studenti e che quindi è una macchina un po’ sgangherata. Ma non è vero, come si dice ora, che è in atto una congiura dei baroni. Di baroni in Italia ce n’è qualcuno a medicina o a giurisprudenza, ma tutti gli altri non hanno potere».
- Dia una definizione sintetica di barone universitario.
«È una terminologia arcaica, riferita a una situazione che esisteva prima del Sessantotto. Attualmente ci sono professori più o meno in grado di decidere i destini dei loro allievi e degli studenti, ma che non hanno il potere che l’immaginazione popolare o il ministro Brunetta gli attribuiscono».
- Eppure lei dall’università italiana se n’è andato.
«Sì, ma non sono sbattendo la porta, perchè Pisa è un’ottima università. È che a me non andava tutta la burocratizzazione dell’università italiana, il fatto che ci siano i crediti, che un credito corrisponda a un certo numero di ore di insegnamento, e via di seguito. Trovo un’assurdità pesare tutto con il misurino, e insieme un impoverimento del sistema universitario. In Italia c’è una quantità di riunioni tale che si perdono di vista i contenuti, si discute e non si conclude niente. Poi arriva una circolare che cambia tutto. Negli Usa invece per studiare e insegnare ho chiesto e ottenuto di non dover partecipare a riunioni».
- Si può fare un raffronto tra le università italiane e quelle degli Usa? Anche là c’è l’eccellenza e poi un grande appiattimento verso il basso, o no?
«In America ci sono circa 3800 tra università e college. Un centinaio sono quelle buone, ma se uno guarda le prime dieci, con Harvard e Yale in testa, c’è una distanza abissale con le nostre. È anche vero che il fatto che ci penalizza, per esempio in graduatorie come quella annuale dell’università di Shangai, è che lì si tiene conto del rapporto numerico tra docenti e studenti, di vincitori di premi Nobel. La Normale di Pisa, dove io ho insegnato, ovviamente c’è, ma è anche favorita dall’avere pochi studenti. Deve pensare che Harward o Yale hanno quattromila studenti, Roma credo almeno 160mila. Il problema piuttosto è come si arriva all’università, in America. Il livello è ben più basso della nostra scuola media, c’è molto sport, forse troppo, hanno poche materie fondamentali e una quantità di materie facolative spesso bizzarre, come il tango o l’ikebana solo per fare degli esempi. Quindi i ragazzi arrivano molto più ignoranti all’università. Ma siccome devono pagare rette elevate, circa 40mila dollari a Harvard o 25mila all’Ucla dove insegno io, si impegnano. C’è poi una grande quantità di borse di studio per chi non può permetterselo ma è meritevole».
- Ha parlato del potere dei libri sulle rivoluzioni della storia. Insomma, di progetti a lungo termine. E per l’immediato che consigli può dare?
«Il buon vecchio Gramsci diceva che ci vuole un pessimismo dell’intelligenza e un ottimismo della volontà. Questo significa che io non sono un semplice spettatore mandato alla deriva degli eventi. Se intervengo, se sono capace di modificare la realtà, anche poco, allora tutta la mia energia va spesa in senso positivo».