Da oggi nelle sale di tutta l’isola la pellicola di Salvatore Mereu. Ieri l’anteprima a Cagliari
di Walter Porcedda Cate e Luna fuori dallo schermo sembrano due ragazze impaurite. Timide, quasi a disagio davanti a una platea di giornalisti che le scruta. Nonostante i vertiginosi tacchi rossi delle scarpe e il vestitino nero in lamè di Sara Podda e i civettuoli sandali blu indossati da Maya Mulas, sono le facce pulite e i lineamenti morbidi di due angeli di periferia a risplendere. Appena uscite fuori dal telone dove da pochi minuti hanno terminato di scorrere i titoli di coda di “Bellas Mariposas”, il film di Salvatore Mereu – mostrato ieri mattina in anteprima alla stampa e da oggi nelle sale di tutta l’isola–, stanno sedute un po’ in disparte. Star senza averne l’aria. Neanche un po’. Occhi grandi, sgranati, e guance che arrossiscono nel rispondere, a mezza voce, con l’espressione imbronciata e smarrita. No, certo che no. Sara e Maya non si riconoscono per niente nella vita delle due ragazze affrescate nel magnifico racconto dello scrittore Sergio Atzeni e che Mereu ha restituito in fotogrammi di poesia cinematografica. Un film dove campeggia una stralunata teatralità: una fiaba di accenti noir, popolare eppure coltissima, con l’andamento di un documentario sperimentale, alla maniera di certo cinema francese, dove i protagonisti “parlano in macchina”. Stando dentro e fuori, catturano magneticamente lo sguardo insinuando sottotraccia interrogativi oscuri. Fedele soprattutto nel ripetere la medesima tensione narrativa del racconto atzeniano, ne evoca il senso tragico di catastrofe incombente, liberandola allo stesso tempo in esplosioni di ironia improvvise. Squarci di umanità dentro grumi dimenticati di miseria e solitudine. Dove cova inattesa la voglia di vivere. Quella di Cate e Luna, amiche e sorelle per caso, e tutti personaggi che ruotano attorno a loro. Interpretati efficacemente da attori presi per la maggior parte dalla strada, in grado di restituire le atmosfere borderline di un quartiere periferico, Sant’Elia, dove il regista ha voluto ambientare l’azione, e ieri mattina tutti presenti nella sala al termine della proiezione, con le loro storie personali e una grande umanità. Come Carlo Molinari, passato da dj alle spalle, nel film è il marito della signora Sias, con un destino cinico e tragico. Mai avrebbe pensato di diventare attore. «Sono stato pescato in un mercato – racconta con movenze e scatti che sembrano rubati a Celentano – ed eccomi qui. Per Salvatore, un grande, avrei fatto tutto quello che mi chiedeva». E precisa con piglio casteddaiu: «Appu fattu fintz’e sa parti de su curruru...» dice a mò di rinforzo aggiungendo con aria civettuola che «per carità, l’attore non lo rifarò», ma senza crederci tanto, però. Chi invece il mestiere d’attrice lo fa da una vita, a teatro, è Rosalba Piras che ha vestito i panni proprio della signora Sias. «Sì, ma il cinema è un mondo a sè. Ho ascoltato le indicazioni del regista rendendomi conto che il mio era un ruolo intenso e di molte sfaccettature. Lavorare a Sant’Elia poi, mi ha permesso di entrare in contatto con una realtà e un mondo che nella vita di tutti i giorni cerchiamo di ignorare» racconta. E l’altra teatrante, Maria Loi, che impersona il ruolo della madre conferma gli stessi concetti puntando l’indice sull’importanza di questa esperienza in termini di arricchimento professionale. Davide Todde, il giovanissimo Gigi amato da Cate prende le distanze dal suo eroe. «È un personaggio negativo che fa delle scelte sbagliate. Ma mi è piaciuto enormemente lavorare nel film. Sul set si respirava un’atmosfera di grande calore umano». «Sì. È stata una grande esperienza anche per me – rilancia Maya Mulas una volta sciolto l’imbarazzo – ho fatto nuove conoscenze. E una grande amicizia, proprio con Sara» aggiunge. Ma allora “Bellas Mariposas” è un film per ragazzi? O per adulti, come, – ha rivelato Mereu – nei giorni scorsi aveva riflettuto Sara? «In realtà non è che ci siano tanti film fatti per i ragazzi della nostra età – risponde prontamente Maya – e questo lo è. Parla di ragazzi ed è interpretato da ragazzi. Per noi è stato utile conoscere un mondo che ignoravamo». Una realtà metropolitana dura sulla quale è fondamentale indagare. Massimo Zedda, il sindaco del capoluogo regionale, presente in sala, ha voluto ricordare l’opera dello scrittore Atzeni “cantore delle nostre periferie del quale sentiamo ancora il grande vuoto lasciatoci». Una realtà alla quale il regista Mereu si è accostato progressivamente. «Ho trascorso due anni intensi a Cagliari portando a compimento la straordinaria esperienza del film “Tajabone”.Questa città è bellissima, cinematograficamente parlando ed è stata già raccontata in modo efficace da colleghi come Enrico Pau. Nel riprendere il libro di Sergio Atzeni avevo l’obbligo di essere fedele al racconto. Certo, quando lavori ci metti dentro la formazione e le tue passioni. E a cose fatte mi rendo conto di ritrovarci pure il mio amore per autori come Truffaut e, soprattutto, Rohmer. Ma anche l’amore che ho sentito per questa città e come ho imparato a conoscerla. E in questo, ripeto l’apprendistato di “Tajabone” è stato sicuramente fondamentale». E ora, dopo i ringraziamenti agli attori, alla città, al quartiere di Sant’Elia e alla Regione che ha coprodotto il film, l’appello è al pubblico sardo. «Se, spero, questo risponderà bene, – dice Mereu –sarà un segnale significativo per la distribuzione nel resto d’Italia».