Cagliari, il regista pugliese Leo Muscato riduce all'essenza una vicenda complessa sul potere
Alla fine dell'opera i coristi battono gli elmetti assiri sul palco
Tutte le sfumature del grigio per gli ebrei asserragliati a Gerusalemme nel tempio di Salomone, e il rosso per gli invasori assiri. Col ghiaccio secco che provoca il fumo in sala, ed evoca altri fumi angosciosi e più vicini a noi; e il fuoco, in parte vero (super controllato dai vigili dietro le quinte) in parte virtuale, che ci dice di come la guerra porti con sé solo morte e distruzione. Comincia così il “Nabucco”: con una eleganza formale e una netta separazione tra due mondi che sarà il leit motiv dell'intera messinscena. Gli ebrei, i Leviti, a rappresentare gli sconfitti e i giusti. E gli Assiri a raccontarci di un re che voleva diventare Dio.
È un dramma lirico sobrio e insieme ricco quello che ha debuttato ieri sera con molti applausi al Lirico di Cagliari, a sei anni dalla povera, bellissima messiscena di Daniele Abbado. Un “Nabucco” che conta su cantanti di vaglia (su tutti Dimitra Theodossiou, Paolo Coni e Mattia Denti) e sulla direzione di Donato Renzetti, alla guida dell'orchestra e del coro del teatro. Maestro del coro Marco Faelli, a Cristiano Del Monte il compito di dirigere la banda sul palco. Un allestimento importante, che ha finalmente messo insieme le forze (e le debolezze) del Lirico e dell'ente Marialisa de Carolis. Sono quattrocento i costumi disegnati da Silvia Aymonino e realizzati nella sartoria del teatro. Lineari e raffinate le scene di Tiziano Santi, illuminate da Alessandro Verazzi.
Dopo i costi ridotti all'osso delle ultime rappresentazioni - affidate alla creatività e all'impegno dei lavoratori di via Santa Alenixedda, col solo prezioso aiuto extra della regista Marina Bianchi - “Nabucco” rappresenta per il Lirico il passaggio del Mar Rosso, il ritorno a una produzione che mette insieme gli sforzi del teatro, rimasto attivo per l'intero mese di agosto, e l'apporto esterno di scenografi e costumisti. A segnare la svolta, in attesa dell'imminente arrivo del nuovo sovrintendente, il riapparire dei programmi di sala in mano agli spettatori.
Torna Verdi, con la sua musica potente, il coro rinforzato di venti voci e una compagnia di canto di livello (a domani la critica musicale), a dar vigore a un teatro (e a un pubblico) colpito da una crisi profonda. Torna il suo Va' Pensiero, che è l'inno della patria perduta ma anche del desiderio di riconquistarla. A Leo Muscato, regista e drammaturgo di Martina Franca prestato dal teatro di prosa alla lirica, il compito di ridurre all'essenza una storia irraccontabile per la sua complessità: da una parte gli invasori, dall'altra gli invasi. Il dio degli uni e degli altri. E in mezzo le debolezze degli uomini. Che soffrono per amore, come Fenena e Ismaele. Che si dannano per emergere, come Nabucco e Abigaille. È il potere la chiave di tutto. La lotta per affermarlo. Fatta come sempre di prevaricazione, di contrapposizione tra realtà che in questa messinscena sono accolte in una scatola, separate ma anche affiancate.
A donare un sapore di eterna contemporaneità, sono i personaggi. E la capacità del regista di restituire a ciascuno di essi una personalità composita, mai bozzettistica. Così, è vincente la scelta di affiancare ad Abigaille una bimba nella quale rivedere se stessa, le sue aspettative, i suoi sogni infantili. O di segnare pesantemente con una semiparalisi il corpo di Nabucco, raggiunto dagli strali di Jehovha. È il (brutto) libretto a dirlo, ma qui il rispetto dell'indicazione di Temistocle Solera (“invan la destra gelida corre all'acciar temuto”) arricchisce l'interpretazione del protagonista, anziché imbalsamarla, restituendo una dimensione intima a questo dramma lirico così imponente e corale. Era l'obiettivo di Muscato, che nelle sue regie cerca di attuare un progetto di riscrittura per ricreare una qualità di relazione tra l'opera e i suoi contemporanei. Dà vita, il trentanovenne regista pugliese, a una sorta di kolossal anni Cinquanta. Dove le armi che avrebbero potuto essere bombe e kalashnikov sono ancora frecce spade e corazze, dove ciascuno ha un ruolo, e dove domina un grande ammonimento: la smania di potere logora e annienta. E solo chi accetta la fragilità della condizione umana diventa davvero padrone di se stesso e libero, se vuole, di scegliersi un Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola. Sul palco, a raccogliere gli applausi finali, tutti i protagonisti. E tutto il teatro. Con tre coristi che hanno battuto gli elmetti assiri sul tavolato. Come i minatori della Carbosulcis, come gli operai dell'Alcoa.
Maria Paola Masala