DOMENICA, 26 OTTOBRE 2008
Pagina 39 - Cultura e Spettacoli
Superba direzione e ottime voci al Comunale
GABRIELE BALLOI
CAGLIARI. Ha esordito venerdì, in maniera smagliante, la nuova Stagione concertistica del Lirico. Un primo appuntamento pregevole sia per la qualità d’esecuzione quanto per l’interesse delle pagine in programma, tutto all’insegna della scuola musicale ungherese, con l’opera in un unico atto «Il castello del duca (o principe) Barbablù» op.11 di Béla Bartók e il solenne, imponente «Te Deum» di Zoltán Kodály. In lingua originale, con sopratitoli in italiano, il capolavoro operistico di Bartók è stato eseguito naturalmente in forma di concerto replicando così il fortunato esperimento che a febbraio già si era tentato con «La dama di picche» di Ciajkovskij. Merito di chi sul podio ha guidato in modo superbo orchestra e coro dell’Istituzione. Un grandissimo diretttore, Hartmut Haenchen, esperta e raffinata bacchetta, intenditore acuto d’un repertorio che va da Mozart a Sostakovic, con oltre 120 incisioni all’attivo. Riesce a scavare sapientemente la partitura, cogliendone appieno ogni minima nuance, sa sfruttare al meglio le soluzioni timbriche ed espressive ideate da Bartók, esaltandone la complessità di scrittura con mirabile accuratezza. Al suo fianco due ottime voci. Il mezzosoprano Ildiko Komlosi, che già fu al Lirico lo scorso anno in uno straordinario «Requiem» di Verdi diretto da Anthony Bramall, e che riconferma anche stavolta, nel ruolo di Judith, le incantevoli doti d’una vocalità morbida, piena e vellutata come poche, un “vibrato” equilibratissimo, una notevole tecnica di “legato”. E poi il giovane basso Rudolf Rosen, dal timbro corposo e incisivo, offre un’interpretazione eccellente di Barbablù, imprimendogli quell’ideale tensione, cupa e cavernosa, che si addice perfettamente al personaggio. È affascinante, persino conturbante, «Il castello di Barbablù” con le sue tinte malinconiche e l’atmosfera misteriosa di cui è pregno. Fu composto nel 1911 su libretto di Béla Balázs, ispiratosi maggiormente all’elaborazione simbolista di Maeterlink che non all’antica fiaba di Perrault. Per Bartók fu l’occasione di mettere in pratica i suoi studi etnomusicologici, tradurre in musica le peculiarità fonetiche e ritmiche della sua lingua. Cosa che per altro fece pure il suo collega nonché amico Kodály.
Il «Te Deum» del 1936 ne è un esempio, sebbene costituisca una sintesi assai più eteroclita di vari modelli, stilemi e strutture musicali.
Una pagina sacra, maestosa e trionfale, paragonabile in parte al «Te Deum» di Bruckner. Qui è splendido il coro istruito da Fulvio Fogliazza, e non meno i solisti: Komlosi, Rosen, Celso Albelo, validissimo tenore, di fraseggio e chiarezza esemplari, e poi Serena Farnocchia, soprano di nobile e nitida vocalità.