L’attore protagonista di una straordinaria interpretazione per la regia di Giuseppe Bertolucci
di Roberta Sanna wCAGLIARI "L'ingegner Gadda va alla guerra (o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro)" - ancora in scena al Massimo sino a domenica - è lo spettacolo appassionante e densissimo in cui Fabrizio Gifuni, con l'attenta regia di Giuseppe Bertolucci, giganteggia dando corpo alle parole di Carlo Emilio Gadda, tracciando linee interpretative, nessi logici e psicologici nella produzione letteraria del grande scrittore del '900 italiano. Andando a coprire lo spazio tra il "Giornale di guerra e prigionia" del primo conflitto mondiale e il saggio "Eros e Priapo" (1967), tra il doloroso grumo - memoria da cancellare passandosi una mano sulla fronte - narrato dal giovane sottotenente "Gaddus, interventista stronzo" che torna "morto in vita", e lo scrittore-ingegnere del linguaggio e inventore di nuovi mondi dei lavori successivi, che si libra alto e furente nell'invettiva a Mussolini. Gifuni disegna un percorso drammaturgico. Trova il collegamento nel Pirobutirro controfigura dello scrittore ne "La cognizione del dolore", trasfigurato qui in Amleto novecentesco, che al personaggio shakespeariano ruba a tratti il copione, e sempre il senso di un'estraneità totale e insanabile. L'apparentemente ardito legame funziona, magistralmente incarnato dall'attore. Solo, con una sedia e pochi effetti luce, lo straordinario Gifuni colma di significati e comunica, con ingegneristica interpretazione e potenza atletica, emozione e passione e ogni sfaccettatura dei testi. Affiorano dai diari, mescolando tratti dialettali e antropologici, l'affondo contro la guerra e il divertito ritratto degli italiani, la nostalgia della famiglia, il dolore per i giovani immolati e l'indignazione per " i furti e l'inettitudine" degli "asini e i pezzi da Grand Hotel" che sulla guerra speculano. Il suo "sguardo acuto" si fa sarcasmo incendiario nel ritratto del "Kuce" e della demenza di un "popolo frenetizzato dal parolaio da raduno". La ritmata sintesi-pantomima mussoliniana denuncia un "eros in gavazza" generante prole/carne da macello per la soddisfazione "sadica e omoerotica", e poi, faccia faccia con la platea, un ethos ridotto a salvaguardia di sé ("è crimine la mancata idolatria"), e la menzogna "narcissica" di chi "con tacchi tripli fa eccellere la sua nanezza. E nient'altro". Con un trasparente cortocircuito si conclude uno spettacolo da cui, una volta tanto, esce forse affaticato per la profusione di energia l'attore, ben risarcito da applausi pieni, grati e convinti, e non l'appagato spettatore, altre volte cavia di idee e ideuzze registiche diligentemente riportate dagli interpreti.