Applausi ieri sera al Lirico di Cagliari per la prima del Don Quichotte, sul podio Daniel Cohen
Con Orlin Anastassov, Anita Rachvelishvili e Nicola Alaimo
Cinque preludi per cinque atti. L'ultimo, struggente, ad annunciare la fine. Massenet lo affida a un assolo di violoncello, (Emanuele Galanti) ed è l'anima di Don Quichotte a parlare. Il fedele Sancio lo ha appena portato via da un luogo dove il cavaliere dalla faccia triste è stato umiliato e sbeffeggiato. Ma non è la miseria della gente bene a offenderlo - ci è abituato - è la consapevolezza che Dulcinea non potrà mai appartenergli, né meritarlo. È stata lei, a dirglielo, con onestà, dopo aver riso della sua proposta di matrimonio. Lei, seduttiva come Carmen ma dal buon cuore, a capire che quel bislacco cavaliere sarà forse un pazzo, ma è un pazzo sublime. Si scusa di non poterlo amare, ammette di non essere alla sua altezza, gli lancia una rosa rossa. L'hidalgo la stringe al petto, cosciente che il sogno è finito, e col sogno la vita. Che importa se lo hanno offeso, che importa se - al contrario - i banditi che aveva sfidato per amore di Dulcinea gli hanno reso omaggio riconoscendogli un'insostenibile sacralità? Tutto è finito, non resta che morire. Al fedele servitore il compito di sorreggerlo, dopo averlo difeso, dopo aver insultato con coraggiosa dignità i bricconi, i cortigiani, i pezzenti che lo hanno oltraggiato. E stavolta Sancio, così assimilabile per tutta la vicenda a un (non accondiscendente) Leporello, ricorda il Rigoletto della vil razza dannata.
Don Quichotte muore, gli danzano attorno, a rappresentare gli ultimi scampoli di vita, i poetici giocolieri picassiani dell'illusione, poi è il vuoto. Sulla pedana che entra in scena, troppo simile a un patibolo, un vecchio albero accoglie il cavaliere e il suo scudiero. E una quinta scende a rappresentare una sorta di garage con su scritto vietato fumare. Il cavaliere se ne va, sotto lo sguardo del nuovo che avanza, non senza aver prima donato al suo amico l'isola dei sogni, unica eredità che può lasciargli, non senza aver udito per l'ultima volta la voce di Dulcinea.
Non ha cuore chi non si commuove a questa scena, giura Orlin Anastassov, il basso bulgaro che nella prima andata in scena ieri al Lirico di Cagliari, pur indisposto, ha dato voce e anima al protagonista. Con lui Anita Rachvelishvili e Nicola Alaimo. Applauditissimi. E sul podio il ventottenne Daniel Cohen. Tutti giovani, tranne il compositore di questa musica eclettica e trascinante che evoca Offenbach, Bizet, e a tratti Wagner: aveva 70 anni quando raccontò il suo Quichotte.
È l'epilogo del dramma. La conclusione di una comédie héroïque dove l'eroico alla fine prende il sopravvento sul comico, il tragico sul grottesco, e a trovare un'insospettata dignità è Sancio. Servi nobili, e nobili padroni, sono quelli che ci mostra Massenet in questa rivisitazione di un capolavoro universale. Dove Don Quichotte è più un generoso di alta moralità che un patetico megalomane. Un puro, talmente imbevuto di letture e di sogni da non capire la vera natura di Dulcinea, così carnale nell'opera massenettiana quanto è ideale in Cervantes. Eppure è lei, trasfigurata, ad accompagnarlo verso la morte con la sua voce. Ad acquistare nel momento supremo quella idealità che l'opera non le concede, se non nella mente pura del «pazzo sublime».
Una storia grande, e semplice, nella riproposizione operistica e nella raffinata regia di Federico Tiezzi. Che del cavaliere errante, dell'hombre vertical, ha fatto un attore, un uomo talmente ricco di immaginazione da trasformare la realtà comune in un sogno soltanto suo. Sono piccoli teatrini che si succedono, quelli proposti. Palcoscenici dominati di volta in volta dai corteggiatori della capricciosa Dulcinea o da anomali masnadieri, segnati sempre dalla presenza dei ballerini-giocolieri di Virgilio Sieni, a rappresentare il sogno. Un teatro continuo che nella scena dei mulini a vento diventa cinema: quello in bianco e nero di Orson Welles, che Tiezzi ruba felicemente.
Tutta la vita è burla, ed è finzione, per gli altri. Per Don Quichotte è un sogno che muore quando si scontra con l'inaccettabile. Se Dulcinea fosse pura, e lontana, continuerebbe a sognarla. Ma può un cavaliere visionario accettare un compromesso? Muore, in un palcoscenico vuoto. Muore perché non accetta il mondo che gli viene incontro: è pieno di mulini a vento, ma non hanno niente a che fare con la poesia.
Maria Paola Masala