Guidubaldi, fucina di cultura
Il vulcanico gesuita per vent'anni agitò le paludose acque dello spettacolo
A Cagliari inventò nuovi spazi, promosse il cineforum, occupò l'anfiteatro
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Sotto il nero cespuglio increspato delle sopracciglia, che contrastava col bianco candido dei capelli, si muovevano due pozze d'acqua chiara: occhioni dolci e imploranti, l'arma segreta con la quale riusciva a convincere i più scettici della bontà delle sue mirabolanti operazioni culturali. Arrivava in redazione a piedi, sudando e sbuffando nel clergyman, trascinando la sua mole di pachiderma ferito. Ti guardava sottecchi, sollevava il mento inquisitorio e disegnava con parole forbite la nuova avventura di organizzatore di spettacolo disponendo sul tavolo carte stropicciate, fotografie unte, fotocopie illeggibili che gonfiavano il suo fedele marsupio, una borsa impiegatizia di pelle lucida. E alla fine puntava bonario l'indice, ammonendo contro qualcuno e tutti, ma si capiva che lui testardamente voleva andare fino in fondo. Dove? Al cuore delle sue sfide-utopie, progetti diventati più grandi di lui, che riassumeva in titoli meravigliosamente colti e astrusi, lunghi come un film della Wertmüller.
VULCANICO Questo era padre Egidio Guidubaldi, il vulcanico gesuita scomparso nel febbraio del 1994 a 74 anni, che per un ventennio ha smosso lo stagno paludoso della cultura in Sardegna. Un solitario combattente oggi dimenticato, nessuno che gli abbia dedicato una serata omaggio, un premio, una rassegna. Eppure quanti debiti abbiamo, e Cagliari in particolare, con questo omone rustego, paziente per spirito cristiano ma brusco nelle decisioni e nell'imperio del comando verso i suoi giovani collaboratori. Mal sopportato dal vertice della compagnia gesuita che borbottava a ogni sua scapestrata intrapresa, scacciato come una mosca molesta dai politici dispensatori di pecunia pubblica che lo associavano a un saltimbanco, Guidubaldi tirava dritto nella granitica convinzione d'essere nel giusto. E lo era anche quando, negli anni prima della morte, si era infatuato - complice una folgorazione per Jean-Luc Godard al tempo di Prénom Carmen - della cultura russa, viaggiava oltrecortina, aveva stretto alleanza con l'Accademia delle Scienze di Mosca, studiava un parallelismo tra Dante e Aleksandr Blok, poeta dell'Ottobre sovietico, coltivato in quattro libri, di impervia lettura e complesse teorie, ma spesso - a parere di illustri critici - ci azzeccava pure.
LA RUSSIA Allora, però, nessuno gli dava ascolto. E questo era il suo cruccio. Uscito di scena come organizzatore, in pensione dall'Università (insegnava Letteratura italiana a Sassari) impiegava il suo tempo con cocciutaggine sulla connection sovietica, che frequentava già nelle more del crollo comunista e nei vagiti della perestrojka . Dalla Russia con ardore: tornava in città euforico, una volta entrò trionfante in redazione e sciorinò, come prova del credito acquistato a Mosca, una copia in cirillico della Literaturnaja gazeta , dicendo al perplesso giornalista che naturalmente nulla capiva, «guarda, qui si parla di me». Sembrava - lo era - un Don Chisciotte: i suoi mulini a vento erano l'ottusità del potere, la sua Dulcinea la cultura, e Sancio Panza i suoi fedeli spettatori.
Però Braccobaldo, così era amichevolmente soprannominato, macinava idee, dibattiti, spettacoli: andava controcorrente, non aveva paura del suo anticonformismo che gli procurò rimbrotti dai superiori. Non venne mai sospeso ma poco ci mancò quando difese a spada tratta Je vous salue Marie di Godard che rileggeva l'Immacolata in chiave moderna. Il Papa condannava il film, orde di cattolici s'accodavano al monito e lui, nientemeno, organizzava a Roma l'anteprima nazionale, facendo accorrere la polizia per sequestrare la pellicola. E due giorni dopo, a Cagliari, promuoveva in un salone dell'Hotel Mediterraneo (nessuno gli aveva concesso una sala) una serata spettacolo pro Godard. La sua foto finì in prima pagina sull'Unione Sarda, sopra quella di Papa Wojtyla: protestò con l'incolpevole giornalista per la mancanza di rispetto che gli avrebbe procurato guai ma sotto sotto si sentiva orgoglioso della sua “marachella”.
Era il 1985, l'apice della popolarità e del turbinìo organizzativo. Ma già nei dieci anni precedenti Guidubaldi aveva segnato la storia cagliaritana dello spettacolo. Iniziò col teatro guidando la messinscena “domenicale” di testi come Antonio e Cleopatra di Shakespeare, Aulularia di Plauto, affidati all'anziano regista Aldo Ancis, arruolato con pacche sulla spalla.
IL CINEFORUM Il cavallo di battaglia fu il cinema: nella saletta di via Ospedale, dure sedie di legno cigolanti, il suo cineforum calamitò e educò al piacere del film molti giovani. Si vedeva Nashville di Altman e tanto cinema della Hollywood di sinistra (Scorsese, Rafelson, Penn), si proiettava Jesus Christ superstar per dimostrare l'apertura mentale dei cattolici (e subito dopo L'esorcista ), si scuoteva la platea con L'altra faccia dell'amore di Ken Russell e soprattutto con La montagna sacra e El topo di Jodorowsky, film carichi di violenza surreale e allora vietatissimi ai minori di 18 anni. Gli fu fatto notare che aveva censurato una sequenza in cui si vedevano dei genitali maschili e lui, lapidario: «Meglio che li tagli io, prima che li taglino a me», riferendosi al minculpop gesuitico. Ben prima che Nanni Moretti inventasse la battuta «No, il dibattito no», Guidubaldi l'aveva messa in pratica: a fine proiezione, presidiava il centro della sala e microfono in mano dava vita alle sue elucubrazioni cine-letterarie, già annunciate dalla scheda ciclostilata consegnata alla cassa. Il pubblico scappava alla chetichella, oppure rumoreggiava insolente e lui sollevava il tono baritonale. Più di una volta fece sprangare le porte, intrappolando tutti nella sacra discussione.
La sua poliedrica attività non si fermava qui: scrisse un musical sindacal-politico, Lama star , organizzò spettacoli di ballo a Sassari con Carla Fracci, convinse il medagliato regista Orazio Costa Giovangigli, allora ottantenne, a dirigere una messinscena dell'Inferno dantesco, prima all'anfiteatro, poi al Colosseo: aveva tutto pronto, scene e bozzetti, pure articoli sul Messaggero ma la soprintendenza di Roma gli negò il permesso.
INVENTORE DI SPAZI Intanto scovava nuovi spazi: una rassegna di cinema sullo sfondo del nuraghe di Barumini, una sulla piazza grande di Fertilia, montò uno schermo nel cortile del Conservatorio di Cagliari, affittava l'Astoria, votato alle luci rosse, per proiettare Pasolini creando un cortocircuito con l'abituale pubblico di sbavatori.
Quando non aveva uditori, s'inventava l'evento. Un giorno disse di aver istituito il premio Mediterraneo e decise che sarebbe andato al regista greco Theo Angelopoulos. Come fare? Guidubaldi prese l'elenco telefonico di Atene, chiamò tutti i Theo Angelopoulos: prima incappò in un omonimo violinista (che stava incautamente per invitare) poi finalmente scovò il regista. «Venga a Cagliari, c'è un grande premio per lei».
Non sapeva neppure che faccia avesse, chiese al solito giornalista (stavolta esterrefatto, non perplesso né incolpevole) di indicarglielo nello sciame di turisti sbarcati all'aeroporto di Elmas. In un francese da venditore di souvenir Guidubaldi si scusò dicendo che il premio non era ancora pronto, lo portò all'anfiteatro dove, sotto il flash di un fotografo raccattato all'ultimo momento, gli mise in mano due volumi su Cagliari. Poi sul cortile sconnesso di Sant'Eulalia per la proiezione su un lenzuolo stiracchiato di Alessandro il Grande . Il piccoletto, educatissimo Angelopoulos dall'aria sempre più smarrita lo seguiva come ipnotizzato, fino a quando la notte, prima di chiudere la porta della camera d'albergo, gli chiese: «Scusi, ma lei cosa vuole da me?». Guidubaldi non disse niente, sorrise tra l'ebete e il sornione, e si congedò.
L'OCCUPAZIONE Questo era Braccobaldo, uno show continuo. Nonostante la flebite, il diabete, un infarto non chiudeva mai la sua personale fucina di cultura. Memorabile l'impegno per l'anfiteatro abbandonato all'incuria: fece irruzione durante un consiglio comunale brandendo il suo bastone contro il sindaco Ferrara, una volta scavalcò la cancellata e occupò simbolicamente i graniti soffocati dalle erbacce. Un'altra ancora chiese al giornalista (di nuovo perplesso) di accompagnarlo all'anfiteatro dove lui, per protesta, avrebbe dormito sotto un canalone. Era una notte di luglio. Guidubaldi sgusciò dentro, in una mano una coperta, nell'altra una pila. La figura claudicante scomparve inghiottita dal buio, insieme alla luce sempre più fioca. Sembrava il finale de L'albero degli zoccoli , col lanternino contadino che si spegne nella nebbia. La fine di un'epoca, di un modo di far cultura, di una geniale follia che vien voglia di rimpiangere.
Sergio Naitza