Alessandro Lai, costumista di successo del cinema, racconta la città
che lo ha formato: fascino e mistero in quelle fughe a Castello da bambino
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Adesso il lavoro gli scandisce le giornate, da anni è entrato nella macchina cinema diventando un apprezzato costumista con un curriculum già importante. Ha firmato film di Tornatore ( La leggenda del pianista sull'Oceano ), Zeffirelli ( Un tè con Mussolini ), Brass ( Senso '45 ), Archibugi ( Lezione di volo , Questioni di cuore ), Ozpetek ( Saturno contro , Un giorno perfetto e l'ultimo, ancora sugli schermi, Magnifica presenza ) e in bacheca fanno mostra ambiti riconoscimenti (brilla un Nastro d'argento).
Ma quando può Alessandro Lai, 42 anni, tratti somatici inequivocabilmente mediterranei, lascia il caos di Roma per respirare l'aria cagliaritana. Non è saudade , sentimento che contempla uno strazio dell'anima, per lui Cagliari, sua città natale, è un ritrovare le radici dell'adolescenza felice, infilare lo sguardo in quella linea d'orizzonte che salda cielo e mare. «L'emozione della vista che si gode dalla Sella del Diavolo o dal faro di Calamosca: ecco, lì trovo una risposta alla domanda “che cosa ti lega alla tua terra?”».
Da Bari, dove sta lavorando a un nuovo film, e intanto magnifica i risultati della Apulia Film Commission, con la speranza che anche la Sardegna possa prendere esempio e spiccare il volo, accetta la chiacchierata sul rapporto che ha instaurato con la sua città.
Come è stata la Cagliari della sua infanzia?
«Sono nato in via Stampa, quartiere Fonsarda, anno 1970, davanti avevo campi incolti fino a Pirri, zona Acentro. Ora il panorama è cambiato, palazzoni e palazzoni, più un serpentone di cemento che ha deturpato il paesaggio, l'asse mediano: mi fa venire in mente la tangenziale a San Lorenzo, a Roma, pessimo esempio di sconquasso urbanistico. Ma quello era stato costruito negli anni Sessanta, l'asse mediano 15 anni fa: si copia ancora il brutto, con ritardo».
Avrebbe preferito una città più provinciale?
«Si trasforma tutto rapidamente, soprattutto nei centri urbani. Ma forse idealizzo perché nei miei ricordi di oltre trent'anni fa Cagliari era un paesotto, profondamente affascinante».
Come viveva la città?
«Ho stampate nella memoria le gite, in realtà erano piccole fughe con mio fratello e gli amici, all'insaputa dei genitori, verso Castello. Quel grumo di bastioni, le torri, un'altra città che si alzava sulla città, eccitava la mia immaginazione di bambino. L'audacia era arrivare fino alla Cattedrale, ricordo le tombe degli Alagon con le mummie che mi facevano venire la pelle d'oca, un flash dell'adolescenza che ogni tanto riappare».
Altre “gite”?
«Tuvixeddu, considerata allora zona pericolosa, impropriamente, solo perché adiacente a un quartiere che alla borghesia di allora pareva poco raccomandabile. Era in completo abbandono, una discarica a cielo aperto, le tombe da profanare come novelli archeologi: un luogo che a noi ragazzini dava un senso di scoperta e profonda libertà. Adesso, dappertutto, è cambiata la consapevolezza sui siti archeologici ma questa dimensione giocosa e misteriosa di Cagliari - che i bambini d'oggi sicuramente non hanno più - mi ha sempre intrigato e segnato».
Cagliari vuol dire mare...
«... che vuol dire Poetto. Quando finiva la scuola iniziava il periodo del mare, era una scadenza matematica o naturale. Ricordo i casotti, a tinte sgargianti, mi portavano mie zie e mia nonna, una immagine che ho rivisto nei film di Fellini. E la sabbia, di un candido abbagliante: quando hanno fatto il ripascimento ero già a Roma, torno e trovo un deserto nero. Scioccante».
Qual è il luogo che non corrisponde più ai suoi ricordi?
«Le librerie. La mia giovinezza ha coinciso con le letture. La libreria era un posto obbligato, zona franca, via di fuga. Quelle che frequentavo io non ci sono più. Ma un posto è rimasto, per fortuna».
Quale?
«Il mercato di San Benedetto. È luogo proustiano, la mia madeleine . Nonostante la ristrutturazione, conserva l'antica atmosfera popolana. Per me lì c'è Cagliari: non è solo un centro di commercio, è un'agorà, crocevia di incontri e relazioni. Ogni volta che torno in città, ci vado a comprare il pesce con mia madre».
Anima popolaresca, d'accordo. E quella culturale?
«Devo tutto a Cagliari. Mi ha formato intellettualmente. Ho frequentato il liceo classico Dettori, insegnanti severi e capaci, dalla Cardia che ti faceva amare Dante, alla Caocci che ti appassionava al greco a Masala che sapeva spiegare con intelligenza la storia dell'arte. Era un istituto di stampo borghese, diciamo vagamente ottocentesco ma quando sento i discorsi dei miei amici che parlano del disastroso rapporto che i figli hanno con la scuola d'oggi, credo di essere stato fortunato. Loro avrebbero bisogno del Dettori che ho conosciuto io. Starci non era facile, appartenervi era una sorta di promozione sociale, di merito. Ora non so più se sia così. Temo di no».
E il teatro, il trampolino di lancio verso il mestiere di costumista?
«Ho trovato degli amici, più grandi di me, che mi hanno instradato verso il palcoscenico. Simonetta Soro, Graziano Milia, Annamaria Loddo: sono loro che mi hanno messo in contatto con il Teatro dell'Arco di Mario Faticoni col quale è nata un'amicizia vera».
Anni '80: cosa offriva Cagliari a un giovane affamato di spettacolo?
«Tutto e di più. Un'offerta di livello nazionale. Passava Carlo Cecchi, Luca Ronconi, teatro sperimentale, avanguardia, prosa classica. Avevo l'imbarazzo della scelta. Dagli anni del liceo fino all'università, quando mi sono laureato a 24 anni, ho visto tutti gli spettacoli in scena a Cagliari. Per giunta gratis: mi infilavo in ogni teatro».
Una buona carta di credito da usare a Roma...
«Relativamente, perché lì ho dovuto iniziare da zero. Però quando sono entrato nella sartoria Tirelli, il mio maestro Piero Tosi è rimasto impressionato dal fatto che, pur venendo dalla provincia, ed essendo così giovane, avessi visto molte cose. Si stupirono per esempio che conoscessi gli spettacoli dei Magazzini Criminali. Cagliari mi aveva dato un buon bagaglio culturale. Oltre a una mia predisposizione allo studio».
Cioè?
«Io avevo una passione per Luchino Visconti mentre tutti gli altri adolescenti sbavavano per le popstar. Andavo nelle biblioteche di Cagliari e lì consultavo e studiavo i testi su Visconti. Quando Tosi lo seppe, restò di stucco: era raro che un ragazzo di 22 anni conoscesse davvero tutto su teatro e cinema viscontiani».
Come è cambiata la sua vita a Roma?
«Dalla provincia alla metropoli realizzavo un sogno perché lavoravo da Tirelli, una gavetta fondamentale, avevo uno stipendiuccio e una stanzetta in un palazzo cinquecentesco, vivevo in una atmosfera meravigliosa».
Poi il grande salto.
«Potevo dirigere la sartoria ma rifiutai, avevo voglia di misurarmi con l'esperienza del cinema, del set. Ho collaborato e conosciuto i più grandi costumisti, da Gabriella Pescucci a Milena Canonero a Maurizio Milenotti, fino al debutto in solitario nel 2000 nel film Rosa e Cornelia di Giorgio Treves. Da allora non ho mai smesso, lavorando con super professionisti e diventando un punto di riferimento per Francesca Archibugi e Ferzan Ozpetek. Ho trovato i miei registi, per un costumista è indispensabile».
Cagliari è sempre più lontana.
«Ogni volta che posso, torno. L'ho fatto anche per lavoro, l'anno scorso, per il film di Salvatore Mereu. Lo farò nel prossimo lavoro di Enrico Pau, intriso di tanta cagliaritanità».
E se dovesse vestire la sua città, che abito sceglierebbe?
«Nel mio ricordo le strade di Cagliari erano eleganti, penso a via Manno, frequentate da una borghesia accurata e profumata. Uno stile tra il sofisticato e il classico inglese: impeccabile ma un po' levantino come tutte le città di mare di provincia che amano apparire».
Sergio Naitza