Gli aspetti più quotidiani di una biografia che ha attraversato quasi un secolo intero
La passione per la Juve, il sogno infantile di fare il pianista
Le parole della figlia Caterina: «Babbo ora starà bene ai piedi della sua Giara»
PAOLO PILLONCA
Iracconti del professor Lilliu erano un’affabulazione fascinosa. Nei viaggi insieme per convegni, tavole rotonde, presentazioni di libri e altri eventi mi è toccata la buona sorte di ascoltarlo, sempre molto volentieri, per un quarto di secolo abbondante. Lo conoscevo già bene dai tempi dell’università per avere frequentato palentologia e antichità sarde, le due discipline che insegnava negli anni Sessanta a Cagliari. Inoltre un mio zio materno, Orazio Ferreli, aveva fatto parte del primo drappello di giovani laureati in archeologia preistorica sotto la sua guida, con Antonello Baltolu, Ercole Contu, Fernando Pilia, Virgilio Tetti. Scelgo, tra centinaia di narrazioni, i fatti meno conosciuti.
La cavallina semiribelle del calesse di casa Lilliu veniva dalla Giara ma era stata domata bene. Era lei a trasportarlo da Barumini a Mandas e viceversa tutte le volte che il piccolo Giovanni doveva partire per il collegio salesiano di Lanusei e poi tornare: alla fine di settembre e dopo la Befana in andata, sotto Natale e a fine maggio nel ritorno. A Mandas c’era il trenino delle complementari, collegato con l’Ogliastra: sei ore di viaggio, più o meno. Nei primi anni Venti la scuola di Barumini aveva soltanto la prima e la seconda elementare. Giovanni Lilliu frequentò il collegio salesiano «Sant’Eusebio» di Lanusei dalla terza elementare alla quinta ginnasio. «Erano i tempi del mitico don Perino, docente di latino e greco, e dell’altrettanto famoso don Carlo Catanzariti, professore di francese», rievocava. «Otto anni di disciplina rigida, con l’appendice di Villa Sora, il liceo salesiano di Frascati. Ma sarò per sempre grato ai figli di don Bosco, gente molto seria».
Giovanni Lilliu aveva perso la madre - Anastasia Frailis - all’età di due anni, nel 1916, nell’epidemia di febbre spagnola che in Sardegna fece strage. Di quel lutto tremendo il professore parlava di rado. Quando lo faceva la sua voce si incrinava. E per me lo sguardo dell’orfano era il suo segno distintivo, lo stesso di Peppino Mereu, Remundu Piras, Michelangelo Pira e dei fratelli Chessa, prime bandiere dell’Àrdia di Sedilo: Costantino e Salvatorangelo. Il segno dell’orfanità è incancellabile, lo conosco bene: per dieci anni l’ho visto tutti i giorni anche sul volto di Tonino Piredda, il compianto collega nuorese dell’Unione.
Una parentesi molto felice dei suoi racconti erano invece gli anni del liceo a Frascati e dell’università a Roma. La gioia del professore riguardava soprattutto il ricordo della Juventus del famoso quinquennio di scudetti 1930-1935: quella di Combi, Rosetta, Caligaris e Borel II detto Farfallino. «Li ho visti giocare a Roma più volte, erano formidabili», raccontava. «Non perdevano quasi mai. Da allora la mia passione per la Juve non si è mai spenta, anche perché mi piaceva il nome: juventus, gioventù. Ricordo quella di Muccinelli e Boniperti, di John Charles e Omar Sivori, di Gaetano Scirea e Dino Zoff, campioni del mondo di Spagna 1982, due atleti che ammiravo anche come persone. Li sentivo fratelli nell’amore per il silenzio». Negli ultimi anni, all’inizio di ogni campionato mi chiedeva: «E ocannu ita fadeus (e quest’anno cosa faremo)?». Alla notizia dell’arrivo di Antonio Conte allenatore disse: «Custu piciocu mi praxit meda» (questo ragazzo mi piace molto).
Lo faceva sorridere la rievocazione della sua scelta di fare l’archeologo preistorico. Quando lo seppe, il padre gli disse: «Bell’arti t’as iscerau: cicadori de teulaciu» (bel mestiere ti sei scelto: il raccoglitore di cocci di terracotta). In famiglia l’avrebbero voluto notaio, professione che nel parentado mancava. Per la maturità il nonno materno gli aveva chiesto: «E ita disigias po arregalu?» (cosa vorresti come regalo?) E lui: «Mancai siat unu pianoforti» (un pianoforte, magari). E l’avo, secco: «E ita nanca, t’arregalu una scupeta» (macché, ti regalerò un fucile da caccia). Ma la passione venatoria, coltivata per alcuni anni, gli venne presto a noia, tanto che il professore confessò più volte: «Mi ndi seu pentiu, no est unu bellu spàssiu» (me ne sono pentito, non è un bel passatempo).
Ridiventava ancora più serio quando parlava degli scavi, con il passare degli anni li vedeva come un’indicazione del destino. Nel marzo del 2007 a Barumini, durante la festa per i suoi 93 anni, confidò: «Riandando indietro nel tempo ripenso al segno della sorte di cui i miei amici mi parlano frequentemente e mi sento come investito dal vento della predestinazione».
Gli ultimi colloqui con lui hanno avuto vari argomenti. Il ricordo di Antonio Sanna, il linguista bonorvese suo amico che negli anni Settanta, con lui preside di facoltà, dettò la delibera rimasta famosa sulla tutela della lingua. L’esperienza di «Nazione Sarda» con Antonello Satta, Elisa Nivola, Gianfranco Contu, Eliseo Spiga. Il rimpianto di Michelangelo Pira, suo allievo, scomparso prematuramente il 4 giugno del 1980. La corrispondenza epistolare con Emilio Lussu, che meriterebbe di vedere la luce.
Amici carissimi di Giovanni Lilliu erano anche i poeti Cicitu Masala e Peppe Sozu, il famoso cantore di Bonorva che aveva la sua stessa età. Altro amico di lunga data, il pittore Antonio Corriga. Di lui il grande archeologo ricordava un episodio curioso e ne sorrideva divertito. Dipingendo una processione di Sant’Efisio, l’artista di Atzara ebbe il desiderio di inserire nel quadro anche il viso del professore. Finito il lavoro, Corriga si accorse di un particolare che annotò in versi: «Apu fatu su retratu/ a Giuanni Lilliu:/ chene ddu bolli est bessiu/ in colori de terra ’e pratu» (ho fatto il ritratto a Giovanni Lilliu: senza volerlo, è venuto fuori in colore di terracotta).
Come accadde a Cicitu Masala per Nughedu, suo paese natale, negli ultimi anni anche Giovanni Lilliu rivolava spesso al suo nido di Barumini. Ieri mattina, nella camera mortuaria dell’ospedale «Brotzu», la figlia Caterina ha detto: «Babbo starà bene ai piedi della Giara».