Rassegna Stampa

Sardegna Quotidiano

La collina delle civette e il presagio sui sardi

Fonte: Sardegna Quotidiano
20 febbraio 2012

MEMORIE

 

UNA VITA MILITANTE «Sapevo che l’industrializzazione non avrebbe portato nulla di buono ma solo la distruzione della nostra economia millenaria. Lussu? Sembrava un capotribù»

I ricordi, ecco cosa affiora prepotente, violento, alla notizia che su babbu mannu non c’è più. I ricordi, che sono tanti e l’amarezza per non aver saputo fermare la quotidianità, accendere una telecamera. E fissarli per sempre, appunto, quei ricordi. Quelle parole, quei ragionamenti, quei pensieri e quelle emozioni. Giovanni Lilliu che racconta delle pernici e delle civette sulle campagne di Barumini. Lilliu che rivela per l’ennesima volta, con il consueto imbarazzo, com’è diventato Lilliu: «Ero ragazzino, andavo con i miei compagni a giocare proprio dove c’era una collinetta e un buco in sommità. Lanciavamo le pietre sui nidi. E poi sono andato a Cagliari e a Roma a studiare, maistru in perdas, a dispetto di mio padre che voleva diventassi avvocato o medico». Quella collinetta nascondeva la reggia nuragica e gli è valsa, una manciata di lustri dopo, il titolo di Accademico dei Lincei, il tempio della Cultura. Un intero paese, da tempo “lilliucentrico”, ha seguito ammirato il professore e i suoi studi per riportare alla luce la civiltà dei sardi. «Lavoravamo dall’alba al tramonto per gli scavi, con una frenesia che non saprei raccontare. Anni così, di studio collettivo». La sua voce era flebile, si materializzava con ritmo da un corpo piccolo quanto energico. La casa di Cagliari, dietro piazza Giovanni, quella grande scrivania di legno in un grande studio luminoso, zeppo di libri. E due colonne di volumi, in eterno bilico tra il professore e i suoi ospiti, rapiti da tanto sapere e dalla sua ferma mitezza. LA SUA EREDITÀ Barumini gli deve tutto e la Sardegna gli deve moltissimo: la Sardegna della cultura, quella dei professori universitari di lettere che ha tenuto a battesimo. Ma tutto il mondo autonomista perde con lui un faro limpido, forse l’ultimo. Quello che accese luci potenti sul valore dell’identità, elaborando dagli scritti di Laconi, di Cardia e Pigliaru la teoria della “co - stante resistenziale” del popolo sardo. Giovanni Lilliu, quello che negli anni ‘70, già da trent’anni cattedratico laureato, animò i movimenti di “Su populu sardu” e “Città campagna” per affermare il valore dell’insegnamento della lingua sarda. Quello che da consigliere comunale e regionale dc, cattolico sardista (e dunque progressista) senza tessera, diceva no ai Piani di rinascita: «Lo sapevo come sarebbe finita, lo sapevo che le fabbriche avrebbero distrutto l’economia millenaria della Sardegna senza portare nulla di stabile ». Sapeva molte altre cose e altre ancora le aveva irrimediabilmente intuite. Un giorno di dieci anni fa disse: «Ci sono ancora settemila nuraghi da studiare, sopravvissuti alla distruzione, al saccheggio per farne villette e muri di recinzione. Ma noi ancora non abbiamo compreso il valore e soprattutto la ricchezza della nostra storia». Un giorno di primavera a Soddì, un tempo frazione di Ghilarza e oggi micropaese, bello come solo i paesi sardi sono, adagiato sul lago Omodeo. Il sindaco Pina Cherchi gli consegna una grande chiave in trachite, simbolo del Comune. Il professore la riceve con timidezza e incanta tutti citando con soavità Antonio Gramsci e i nuraghi del territorio, la foresta fossile di Olecca e la storia della basilica di Zuri smontata dagli ingegneri fascisti e rimontata a monte, pezzo per pezzo. I ricordi, quelli che affiorano con violenza. E danno la misura della grandezza di questo piccolo uomo. «Eravamo a Barumini, Emilio Lussu era passato a prendermi a casa, voleva vedere gli scavi. A un certo punto prende da terra un grosso e lungo ramo e guarda il Campidano. Sembrava un capotribù nuragico, magro com’era, la schiena dritta».

Claudio Cugusi