Un’eccezionale scoperta archeologica in mostra da oggi per la prima volta a «Le stive e gli abissi»
WALTER PORCEDDA
Ignazio Sanna, quella mattina di un freddo gennaio di tre anni fa, non credette ai propri occhi. Immersosi sotto un cielo plumbeo, l’archeologo aveva raggiunto in pochi minuti il cantiere subacqueo allestito in un fondale dello stagno di Santa Giusta. In quel punto, i giorni precedenti, l’equipe della Soprintendenza aveva percorso più volte quel tratto d’acqua filmando, palmo a palmo, un territorio che aveva restituito preziosi reperti lignei e ceramiche. Ma quel coccio, emergente tra due gruppi di anfore, quasi inutile a prima vista si rivelò, mentre l’archeologo con cura lo liberava dal fango, una testimonianza di inestimabile valore. Un volto d’argilla lavorato finemente. Quello di un satiro, opera di ispirazione ellenistica risalente secondo gli studiosi a un’epoca tra il IV e il III secolo avanti Cristo.
A rafforzare l’idea che la testa, senza capelli, una fronte solcata da linee profonde, naso schiacciato e due labbra prominenti potesse verosimilmente essere quella di un satiro (vagamente assomigliante, tra l’altro, a quelli disegnati da Rubens) era stato un altro ritrovamento avvenuto giorni prima.
Nella stessa area infatti era venuta alla luce una zampa lignea e uno zoccolo di capra o di ungulato. Alta una cinquantina di centimetri, scolpita a perfezione aveva una sorta di incastro nella parte superiore. Il ritrovamento è di quelli sensazionali e in grado di aprire scenari interpretativi inediti. Un corpo da satiro, mezzo umano e mezzo animale, rappresentato in modo raffinato usando sia l’argilla che il legno? La scoperta, presentata ad un recente convegno internazionale di Hammamet, ha fatto sobbalzare la comunità degli studiosi. Adesso, questo manufatto straordinario (solo la testa però) sarà per la prima volta visibile al pubblico nella mostra che si apre oggi alle 18 (fino al 18 maggio e con biglietto unico valido anche per il Museo archeologico) nei locali del Ghetto a Castello, frutto di una inedita collaborazione tra Soprintendenza archeologica e Comune, che entrambi (rappresentati rispettivamente dal suo responsabile Marco Minoja e l’assessore alla cultura Enrica Puggioni) giurano foriera di sviluppi. Si tratta de «Le stive e gli abissi - L’archeologia e i mari della Sardegna, dalle navi di bronzo allo scavo subacqueo» che fa pendant con quella aperta tre giorni fa all’Antiquarium Arborense di Oristano e dedicata alle navi in bronzo.
Ed è proprio una imponente nave romana dell’epoca repubblicana, ricostruita perfettamente dai tecnici esperti della Soprintendenza archeologica che accoglierà il pubblico dei visitatori immergendoli per incanto in uno spazio temporale lontano migliaia d’anni. Un’epoca che, a dispetto del titolo della mostra - evocante piuttosto scenari catastrofici di naufragi e relitti, tragedie causate da scogli e secche - racconta di rotte frequentatissime sin dai tempi lontani. Da navi puniche e romane. E ancora prima da piroghe ricavate ad esempio da sugherete, come quella ricostruita perfettamente all’ingresso dell’esposizione. Racconta di scambi commerciali e preziosi carichi fatti di grano e di vino, di olio e di “garum”, carne e pesce speziati e conservati con le pigne e il vino. Contenuti dentro anfore dalle bellissime forme allungate a siluro o a otre. Alcune di queste vengono tra l’altro mostrate una vicina all’altra nella pancia della nave. Sono oltre trecentocinquanta i pezzi pregiati (tra cui anche un tesoro di sesterzi) tornati alla luce dopo un silenzio durato secoli conservati nel profondo del mare. Narrano storie dimenticate di uomini e donne, civiltà lontane nel tempo ma, a vedere da vicino, così simili alla nostra.