La Chiesa e la società sarda
Paolo Matta
Giungono domani a Cagliari le reliquie di Giovanni Paolo II. Nella sua storica visita pastorale dell'ottobre 1985 volle, fortissimamente volle, inserire nel suo già fitto programma, la visita e l'abbraccio ai minatori della Carbosulcis. Un segno tangibile di solidarietà non di facciata, ma autentica e concreta. A 26 anni di distanza da quell'indelebile viaggio apostolico, dalla società sarda continua a salire lo stesso grido di disperazione e di dolore. Ma in questo urlare, nelle piazze o nelle stanze del potere, assordante si fa il silenzio della Chiesa sarda. Se è persino commovente l'opera dei vescovi di Ales e Iglesias nello spostarsi da una zona di crisi all'altra, si chiamino Alcoa o Keller, assicurando con la loro sola presenza, affettuosa condivisione e sodale partecipazione, non abbiamo letto alcun documento della Conferenza Episcopale Sarda, nessuna scesa in campo di vescovi, parroci, religiosi, di comunità parrocchiali, associazioni e movimenti laicali. Dove siete? Dove sei, Chiesa di Sardegna, si chiedono in tanti? All'Isola del Giglio il parroco ha spalancato il portone della chiesa e trasformato la navata centrale in un improvvisato centro di accoglienza. La Sardegna ha bisogno di questa Chiesa, che sappia non solo “sgridare” ma soprattutto gridare con chi è nel dramma più profondo. C'è un popolo che invoca una “pastorale della carezza”, della condivisione e del camminare insieme. Che desidera uomini di Dio che sappiano parlare al cuore dell'uomo, confortare, trasmettere e accendere la speranza. C'è bisogno, è vero, di lavoro, di stipendio sicuro, di pensioni più giuste. Ma è forte la domanda di sostegno, di rassicurazione, di comprensione. Questo è il compito della Chiesa, delle comunità cristiane, di vescovi e preti, di suore e di laici. Sentirne la mancanza è doloroso.