Madama Butterfly porta l’esotismo nella cultura di massa
Il mito del Giappone e la sua tradizione estetica penetrano nel gusto della media borghesia
GIANNI OLLA
Nella raccolta di saggi «Cultura e imperialismo», Edward W. Said - l’autore del più celebre «Orientalismo» - prende in esame, assieme a celebri romanzi come «Kim» di Kipling e «Cuore di tenebra» di Conrad, anche un’opera lirica: l’«Aida» di Verdi. Senza entrare nel merito delle argomentazioni di Said, si potrebbe dire: troppo facile!
L’apertura del Canale di Suez, che originò la commissione a Verdi, e il mito dell’Egitto antico, scoperto dall’impresa napoleonica e immediatamente diventato una straordinaria moda esotica in tutt’Europa, spiegano tutto il background imperiale dell’opera, incastrato quasi a forza nel tipico melodramma nazionalista (anche qui popoli che lottano per la libertà) del musicista di Bussetto.
Invece in «Madama Butterfly», che fino al 17 ottobre sarà in scena al Teatro Lirico di Cagliari, è più facilmente leggibile un modello di esotismo entrato a far parte della cultura di massa.
Già l’esordio dell’opera, con l’arrivo di Pinkerton al porto di Nagasaki, diciamo negli ultimi vent’anni dell’Ottocento, è un viaggio commerciale, originato dalla forzatura del porto di Edo, l’odierna Tokio, da parte dell’ammiraglio Usa Perry nel 1854.
Quell’atto, o quella costrizione, diede il via alla modernizzazione del Giappone e alla nascita di una nuova grande potenza, il cui mito e la cui cultura estetica (teatro, costume e arti grafiche) si trasfuse nel gusto della media borghesia, classe in ascesa e principale «target» della comunicazione.
A queste mode contribuirono i giornali illustrati e, ovviamente, il cinematografo (una veduta Lumiere, molto suggestiva, raffigura una donna giapponese con il bambino nei costumi locali), nonché le grandi esposizioni universali, e, non ultimi, i reportage e i libri di viaggio.
La storia dell’opera pucciniana è quasi archetipica di questo referto a spirale che dà origine ad un’autocoscienza sociale e razziale delle popolazioni occidentali molto più forte di quanto non fosse nell’Ottocento.
Nel 1898, infatti, è Pierre Loti, marinaio, scrittore, viaggiatore, a raccontare in «Madame Crisantemo» la storia di un ufficiale francese - certo lo stesso Loti - che, sbarcato a Nagasaki, sposa per gioco una geisha (donna-schiava che facilmente, sceglieva la possibile liberazione attraverso questo tipo di unioni) e dopo tre mesi l’abbandona. Il racconto di Loti viene quasi plagiato dall’americano John Luther Long (cambiano solo le nazionalità dei marinai) e nel 1900, David Belasco, figura centrale del teatro popolare americano ed ispiratore dello stesso Griffith, porta in scena un atto unico. Il titolo del racconto e del testo teatrale è già «Madama Butterfly» e Belasco inventa il finale tragico, ingrediente che non può mancare in un melodramma e che resterà come emblema anche nell’opera lirica.
Proprio lo scorso anno, al Festival pucciniano di Torre del Lago, è stato rappresentato quest’atto unico, segnalato a Puccini da Giacosa che poi scrisse il libretto dell’opera assieme a Illica. Nel 1904, dopo tre anni di lavoro, l’opera arriverà alla Scala, e fu bocciata dal pubblico. Puccini continuerà ad aggiustarla fino al 1920, ma fortunatamente con il conforto del crescente successo: la cultura popolare tendeva ad allargarsi.
È anche obbligatorio scrivere che l’esotismo pucciniano non fu solo orientalista: difatti nel 1907 il musicista toscano mise in scena un altro testo di Belasco, «La fanciulla del west». Il western esisteva già ed era, per gli europei - così come l’America tutta, avrebbe scritto Franz Kafka - un paese immaginario e mitologico: un altrove esotico.
Ma per tornare all’opera si può anche scrivere che se l’onda lunga del mito nipponico ha ormai incluso cinema, teatro, arti visive, romanzi, cancellando, in nome di una positiva globalizzazione, il vecchio esotismo piccolo borghese, a «Madama Butterfly» è rimasto uno spazio importante, paradossalmente realista.
È infatti a metà degli anni Ottanta che Ken Russell ambienta l’opera di Puccini in un bordello di Tokio riservato alle truppe americane che, dopo il 1945, occupavano il Giappone. Il nuovo dominio imperiale e culturale infastidiva anche agli intellettuali giapponesi che non avevano minimamente tifato per la guerra e l’imperatore. Ne sono testimonianza - pur con le ovvie censure a cui erano sottoposti i copioni da parte degli americani - tanti film del dopoguerra, anche di maestri come Kurosawa, Kinoshita, Mizoguchi.
Ma bastano pochi anni perché anche la mitologia esotica venga ribaltata. Nel 1957 Joshua Logan dirige «Sayonara», un film in cui Marlon Brando, maggiore dell’aviazione di stanza in Giappone, s’innamora di un’attrice del teatro di Kobe e, per lei, lascia la fidanzata e anche l’esercito. Nella trama del film c’era una sorta di suo doppio pinkertoniano: un collega aviatore, sposato con una donna giapponese e padre di una bambina, che si rifiuta di tornare in patria, non potendo portare con sè l’amata moglie. Farà harakiri assieme alla sua donna, senza aspettare il «fil di fumo» della nave.