CINEMA. Incontro col regista Salvatore Mereu alla vigilia del ciak
Il modello da copiare, in questi giorni, è Stanley Kubrick: non è mitomania, Salvatore Mereu è persona umile e giudiziosa ma vorrebbe che il set del suo nuovo lavoro - primo ciak lunedì - fosse blindato. Come faceva il grande maestro americano. Sente di proteggere il film - che deve ancora nascere - dal chiasso fourviante, dai pettegolezzi inutili e dalle distrazioni che possono ammaccare la tranquillità della troupe e dei giovanissimi, inesperti interpreti.
Alla quarta prova (dopo Ballo a tre passi , Sonetàula , Tajabone ) Mereu si prende - lo dice lui - una bella fetta di rischio: portare sul grande schermo quel capolavoro di Sergio Atzeni che è il racconto lungo Bellas mariposas , iperrealistico ritratto della gioventù bruciata della periferia cagliaritana. Un libro amato da tutti, «ognuno leggendolo s'è già fatto il suo film, chissà cosa si aspettano da me» sospira durante una pausa della preparazione, tra ultimi aggiustamenti alla sceneggiatura e frenetici scambi di idee con i collaboratori mentre il cellulare brontola in continuazione nella tasca dei pantaloni.
Un rischio dunque, perché stavolta non è solo regista ma anche produttore con la sua società Viacolvento, affidata nelle capaci mani di Elisabetta Soddu, che poi è sua moglie. «Tutto in casa, se una casa alla fine del film ci sarà: perché me la sono ipotecata». Il cinema, oggi, si fa così: con triplo salto mortale carpiato. Ma intorno Mereu sente una energia positiva, «tutti credono nel progetto e hanno accettato anche una paga vicina al minimo sindacale».
Un progetto delicato: confrontarsi col libro culto di Atzeni.
«Chiunque si occupi di cinema in Sardegna vorrebbe farne un film. Come per Il giorno del giudizio . Io l'avevo letto tanto tempo fa e solo dopo l'uscita di Sonetàula la storia mi stava crescendo dentro. Un tarlo che non mi abbandonava. Segno che dovevo provarci»
Una storia complicata però, con quella scrittura libera…
« Bellas mariposas non ha un nucleo narrativo forte. È come un racconto di Cechov dove la gente parla e non succede niente fino allo scatto finale. Avevo addirittura difficoltà a organizzare una serie di frasi per raccontarne il soggetto. Alla classica prova del produttore americano che ti chiede il plot in trenta parole, sarei uscito sconfitto»
Che fare? Riscrivere tutto?
«No, i libri non si stravolgono. Sono rimasto fedele ad Atzeni. Certo, il racconto poi l'ho fatto mio: dentro c'è la mia visione dell'adolescenza e del mondo che gira intorno».
Nessuna collaborazione alla sceneggiatura?
«Avevo chiesto all'inizio un aiuto a Maurizio Braucci, sceneggiatore di Gomorra che conosce bene l'esperienza delle periferie. Ma sono stati solo scambi telefonici: negli anni mi sono abituato a scrivere da solo, è un atto intimo così creativo che non riesco a dividerlo con altri»
La prima difficoltà nella trasposizione?
«La scrittura di Atzeni ha una struttura musicale, l'assenza di punteggiatura gli dà un tono da sperimentazione linguistica dove l'unico elemento cinematografico è la voce narrante, che ho rispettato. Ma non ci sono dialoghi, una scena che nel libro è risolta in un piccolo capoverso, nel film ha bisogno di un respiro molto più ampio».
Poi c'è una doppia anima.
«Sì, bisogna far convivere da un lato il racconto crudo e realistico, dall'altro la dimensione favolistica, con apparizioni quasi felliniane. Sulla carta funziona bene, al cinema è molto più complicato».
Forse un ritorno alle origini.
«Vero. Miguel , il mio primo film, aveva una traccia favolistica, ironica. In realtà c'è anche una scommessa segreta: l'esigenza di misurarmi con una Sardegna che non è mia. Sono stato al gioco di chi mi accusava di rappresentare sempre un'Isola arcaica, di pastori e banditi. Adesso faccio una inversione a 360 gradi. Con molte insidie».
Quali?
«Io sono un corpo estraneo rispetto a Cagliari, non ci sono nato, non mi appartiene la dimensione della città. Ma oggi credo di iniziare a conoscerla, sono soprattutto entrato nel suo ventre popolare che prima ignoravo: un mondo affascinante rispetto a quello, diciamo agropastorale, da cui provengo».
Fondamente è stata l'esperienza di “Tajabone”.
«L'anno e mezzo fatto in due scuole cagliaritane dove insegnavo cinema che ha prodotto quel film in realtà era già stato pensato come preparazione a Bellas mariposas . Iniziavo a prendere le misure a Cagliari, ai suoi abitanti, alla parlata».
C'è stato un complicato lavoro di casting?
«Ho fatto provini a tremila persone per 40 ruoli. Non è facile trovare nella vita personaggi letterari perché sono la summa delle esperienze e delle fantasie dell'autore. Le due protagoniste, Cate e Luna, hanno 12 anni e mezzo, vivono quel momento particolarissimo che è il passaggio tra l'essere bambine e l'adolescenza. Che dura pochissimo. Talvolta mi rendevo conto che una ragazzina selezionata, rivista un mese dopo, aveva già fatto il salto, mettendo così in crisi il delicato impianto del film».
Tutti attori presi dalla strada.
«Quasi tutti, ci sarà un minimo innesto di professionisti. Ma non faccio nomi».
Chi sono Cate e Luna?
«Una è di Assemini, si chiama Sara Podda, l'altra è di Cagliari ed è Maja Mulas. Sono sul crinale dell'età del racconto. Ma vorrei che intorno a loro e a tutti gli altri interpreti non ci fosse un accanimento di curiosità che potrebbe danneggiare l'equilibrio del film. Non dimentichiamo che le due protagoniste devono stare bene in gruppo, Bellas mariposas è anche la storia di una famiglia, di un palazzo, di un quartiere».
Ecco: quali sono i luoghi in cui girerete?
«Quel modo di vivere quasi paesano nei caseggiati, in cui tutta la gente si conosce, l'ho trovato nel quartiere Sant'Elia. Dove, voglio sottolinearlo, ci hanno accolto con umanità e partecipazione. Lì c'è la casa di Cate, lì ci sono tanti elementi enunciati nel racconto. E il film vuole rispettare la geografia di Atzeni, che è una avventura cittadina alla maniera di Zazie nel metro di Queneau: per esempio il deambulare per le strade di Cagliari ci sarà».
Cambiamenti di sostanza?
«Il film è ambientato ai nostri giorni, non ci potevamo permettere economicamente di riprodurre gli anni Novanta in cui si svolge il racconto. Qualche aggiustamento rispetto a 15 anni fa era obbligatorio. La scena in cui Gigi mostra la lettera alle protagoniste e rivela il suo amore per Samantha è improponibile, oggi i ragazzi comunicano con sms o Facebook».
La troupe?
«Sarda al 70 per certo. Ne sono orgoglioso, segno tangibile che rispetto a cinque anni fa lo scenario è mutato, in meglio. Sardi sono lo scenografo Pietro Rais, il costumista Alessandro Lai, la parrucchiera Gerolama Sale e la gran parte dei macchinisti, elettricisti, tecnici vari».
Budget del film?
«Un milione e mezzo di euro. Coperti dalla mia società, da Gianluca Arcopinto, dalla Regione Sardegna, dal Ministero, dalla Rai, comuni di Cagliari e Dorgali, Fondazione Banco di Sardegna».
Squilla il cellulare. Conciliabolo. Mereu è col naso alla finestra, a controllare la luce. Dice: «La storia si dipana nell'arco di una giornata, come nel racconto. Per dieci settimane di riprese dobbiamo avere il sole, la stessa luce».
Un problema?
«No, uno dei tanti trabocchetti che mi aspettano sul set da lunedì».
Sergio Naitza