Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Ora e sempre traviata

Fonte: L'Unione Sarda
20 giugno 2011

Una Violetta ambientata negli anni Sessanta è stata protagonista del capolavoro


di Verdi che ha aperto ieri al Lirico di Cagliari la stagione operistica: molti applausi


Vedi la foto Madamigella Valéry appartiene agli anni Sessanta e ha capelli di un biondo ramato. La sua casa parigina, ispirata a Ville La Roche e a Ville Savoye, è un trionfo di linee razionaliste. Un inno al genio di Le Corbusier, al quale ruba divanetti, lampade a stelo, carrelli, quadri. E la mitica chaise- longue. Cambiano le architetture, cambiano i gusti, sono eterne le geometrie dell'amore e le intermittenze del cuore. Che fanno del capolavoro verdiano un'opera così amata dal pubblico. Ieri, quello cagliaritano, sia pure in parte spiazzato dallo slittamento temporale, le ha ritrovate intatte, nell'allestimento firmato da Alfonso Antoniozzi, eclettico baritono-regista (assistente il giovane Gualtiero Ristori). Una regia, la sua, dichiaratamente ispirata alla dolce vita felliniana, così evidente nella prima scena (con Flora che abbozza perfino uno spogliarello).
È l'irruzione dell'amore, quello vero, di Alfredo per Violetta, a cambiare tutto. A farci notare che oltre i segni di una ricchezza di classe, c'è un grande cespuglio di camelie bianche, e un incredibile cielo stellato che vede farsi strada un sentimento puro. (Anche se dentro casa non ha corrispondenze in alcuna legge morale). Per Violetta è l'inizio di una nuova vita. “Sarìa per me sventura un serio amore?”, si chiede, ancora incerta se dar retta al cuore o continuare a folleggiare di gioia in gioia. Di disperazione in disperazione.

La risposta è tutta nel secondo atto. In quella casa di campagna arredata con pochi pezzi d'antiquariato, senza troppe ambizioni. Che siamo nella seconda metà del Novecento ce lo dicono le gonne al ginocchio e i maglioncini di Violetta e della fedele Annina. Il resto è senza tempo. Immutata è l'assurda speranza di Violetta, malata di tisi, di sfuggire alla morte grazie all'amore; l'angoscia di Alfredo che si rende conto di essere mantenuto da lei; la grettezza di Giorgio Germont, che piomba nella pace agreste dei due amanti per chiedere alla giovane di tirarsi indietro. Ne va dell'onore della figlia, lei sì meritevole di felicità. Quella di Violetta? Non conta. È una prostituta, una diversa, una che non può aspirare a nulla che non sia il giudizio senza appello dei benpensanti. Così, alla ragazza che gli confessa in lacrime la sua condizione di moribonda risponde rassicurante: col tempo passerà. Un dialogo tra una donna generosa e un uomo cieco e sordo. Un'intera società di ciechi e di sordi.
È un giudizio senza appello quello del regista. Che nella inquietante festa a casa di Flora si ispira al Kubrick di Eyes wide shut , con quegli invitati tutti mascherati, salvo i due innamorati, e affida a un filmino corse di tori, corride e amplessi soft.
Il clou dell'incomprensione è nell'atto finale, dove ai due Germont non viene concessa alcuna chance. Quando arriveranno a casa di Violetta, sconvolti e (forse) pentiti, la troveranno morta. Una scelta non dissimile da quella di Dumas. Il regista la attua con un escamotage emozionante. In scena, nella stanza della ragazza che sembra la cella di una prigione, ci sono due Violette. Una, accucciata a terra per l'intero atto, sta morendo, l'altra è la sua proiezione. Sogna il ritorno dell'amore perduto, s'illude di non morire da sola. Ma sono solo bugie. Alfredo e Germont sono fantasmi della mente. Arriveranno troppo tardi, e resteranno soli, col loro rimorso.
Maria Paola Masala