Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Un «Asse mediano» tra due mondi

Fonte: La Nuova Sardegna
4 novembre 2010

GIOVEDÌ, 04 NOVEMBRE 2010

Pagina 34 - Cultura e Spettacoli

Nel documentario di Michele Mossa a confronto i quartieri di Cagliari

Nato come un making of del film «Tajabone» di Mereu, è diventata una testimonianza su una città in evoluzione

CAGLIARI. “Asse mediano”. Titolo di un film e denominazione topografica di una strada cagliaritana, sorta di lungo raccordo anulare cittadino, trafficatissimo, che congiunge due periferie attraversando velocemente sia la città commerciale che altre periferie. La vocazione cinematografica di questa specie di autostrada ha trovato spazio anche in “Pesi leggeri” di Enrico Pau e nel documentario di Michele Mossa che sarà presentato oggi al Festival di Roma.
L’appuntamento è alle ore 14 nell’ambito della sezione “Alice nelle città”. “Asse mediano” è una sorta di congiunzione ideale - anche se difficile da “inverare” - tra due quartieri, Sant’Elia e Is Mirrionis/San Michele, o meglio tra le due scuole medie che sorgono in quei quartieri.
Il film è nato come semplice “back-stage” di un’altra pellicola, “Tajabone”, presentato alla mostra del cinema di Venezia da Salvatore Mereu. Ma quando Mossa filmava, il regista dorgalese “combatteva” semplicemente con (o contro) i ragazzi delle due scuole, impegnati a seguire un piccolo corso di didattica audiovisiva. Tajabone non solo non esisteva ma le riprese scolastiche avrebbero dovuto portare a semplici saggi di scrittura filmica, in bilico tra finzione e documentazione.
Poi, anche Michele Mossa ha scelto di “montare” un vero e proprio film dalle sue riprese e non si può che condividere la sua idea, perché “Asse mediano” è davvero un documentario metropolitano tra i più interessanti e più belli del recente cinema italiano e forse anche del passato.
Per chi ha già visto “Tajabone” è anche facile associare i singoli personaggi, o le microstorie raccontate da Mereu, al “back-stage” (letteralmente retroscena) in cui i ragazzi e le ragazze sembrano “drammatizzare” diversamente le loro vicende.
Emblematica e piuttosto bella è la sequenze della ricerca della madre di un ragazzo senegalese, trovata a Sassari, dopo che diverse candidate (compresa la vera madre del ragazzo) si erano rifiutate di recitare. Ma, altrettanto riuscita è tutta la parte relativa al campo nomadi, in cui si deve girare, con la partecipazione di tutta i rom, la microstoria relativa alla fuga d’amore tra i due adolescenti. Poiché in scena c’è spesso Salvatore Mereu - che spiega pazientemente e altrettanto velocemente si arrabbia - l’interazione tra finzione e documentazione produce un effetto Kusturica: il caos e la grande umanità dei nomadi carnevalizzati da un cinema che quasi induce all’auto rappresentazione.
Ma naturalmente Michele Mossa non è stato solo un tecnico addetto alla registrazione del “pro filmico” - cioè quello che esiste nella realtà ma non necessariamente si vede sullo schermo - ma un vero autore che coglie altri aspetti del mondo messo in scena da Mereu e dai suoi ragazzi.
Il contrasto tra la “chiusura” sociale di Sant’Elia (che diventa, in qualche modo identità collettiva di tipo antropologico) e il cosmopolitismo della scuola media di via Meilogu, è quasi un tema sotterraneo del film, accennato anche da una delle protagonista che, accenna, senza alcun segno di razzismo, alla difficoltà di capirsi tra i due mondi. Diversamente, le individualità dell’altro quartiere non derivano solo dalle appartenenze etniche (timidi e introversi i ragazzi senegalesi, esuberanti i rom) ma una conoscenza dei meccanismi di auto rappresentazione mutuati certamente dalla televisione. Non a caso, la protagonista principale, quasi una narratrice, è una ragazza di via Meilogu che si mette in scena, racconta le sue piccole storie di corteggiamenti e di gelosie, commenta ciò che fanno i compagni. Di contro, il simbolo di Sant’Elia è il frequente intromettersi, nella continuità della documentazione, delle prove musicali della scuola, con i ragazzi e soprattutto le ragazze che si esercitano e suonano Gershwin e Frank Sinatra. Un modo per cercare di sfuggire ad un’identità collettiva quasi castrante.