Generazione senza ali nel tempo dell'insicurezza
Scrittrice, sceneggiatrice e giornalista. Intellettuale vera, senza peli sulla lingua. Lidia Ravera era ieri al Lirico di Cagliari, per la quarta edizione del Premio Alziator. Un curriculum ricco, a dire poco. Ma non c'è nulla da fare. Il primo pensiero corre sempre a quel Porci con le ali , scritto con Marco Lombardo Radice e quella luce sui Settanta in piena effervescenza.
Ma oggi come si collocherebbe il personaggio di Antonia di “Porci con le ali”?
«Difficile immaginarla impegnata a fare politica e in riunioni di sabato. Fondamentalmente la centralità della politica è venuta meno. Invece restano le costanti dell'adolescenza, con la scoperta dell'amore e le sue problematiche».
Che considerazioni si sente di fare osservando questa generazione?
«Molto difficile, senza futuro. I giovani sono infilati in un presente slabbrato in cui guardano finire nei call center i fratelli maggiori laureati. Ora insegno all'università e al laboratorio mi sono trovata con 86 ragazzi il primo giorno e adesso 147. Quindi vedo un forte desiderio di capire e imparare, un'attenzione spasmodica perché sono smarriti e nessuno gli tende la mano, specie con adulti insicuri quanto i giovani».
E i meno giovani?
«Si etichettano giovani i trentacinquenni per tenerli buoni e gratificarli. A 35 anni non mi consideravo più giovane ma una donna matura, fuori casa dai 18. Mi ero fatta un figlio e aveva già pubblicato cinque romanzi. Oggi si comincia a vivere tardi perché più tardi si diventa autonomi economicamente. Certo, la vita dura di più. Ma secondo me questa lunghezza è un alibi per non prendere sul serio i giovani. Infatti ogni tanto ne premiamo qualcuno, magari cooptiamo in politica la figlia di un amico e diciamo che abbiamo svecchiato la politica».
Cosa resta del '68?
«Con il '68 c'entro poco perché ero adolescente. Ma le generazioni che vengono dopo si devono prendere quello che serve. Noi leggevamo quattro giornali per confrontare le fonti e passavamo molto tempo a discutere di modelli di società. Non siamo riusciti a cambiare il mondo, però abbiamo sviluppato muscoli dialettici che le generazioni di oggi si sognano. E tra donne continuiamo a ritrovarci e discutere. Non so se abbiamo lasciato qualcosa, ma noi invecchieremo gagliarde, consapevoli».
E la donna di oggi?
«Il modello dominante non è maggioritario, è solo imposto dalla tv commerciale e dal berlusconismo. Abbiamo fatto passi indietro, ma non è che non ci siano donne emancipate. Di fatto sono poche le donne visibili e non vengono valorizzate in questa società sessista. Spero in un risveglio del femminismo nelle giovani donne, al posto di questo grande silenzio».
Quali consigli darebbe?
«Ricominciare dai fondamentali, dall'incontro in piccoli gruppi dove tematizzare le proprio esigenze e le discriminazioni subite».
Favorevole alle quote rosa?
«Sono costretta a esserlo. È una dura necessità visto che le donne non hanno rappresentanza pur essendo più istruite, la parte più qualificata del Paese. Per avere la rappresentanza bisogna obbligarsi per legge, perché gli uomini non cedono il posto. Sono poche le elette, cooptate dalle segreterie di partito e omologate agli uomini nel linguaggio. Io però non voglio “uome”, ma donne vere che mi rappresentino».
Il linguaggio in letteratura conta più dell'idea?
«La letteratura è il come, piuttosto che il cosa. Contano le parole. È vero che il linguaggio si evolve, ma vedo molta sciatteria. I nuovi autori non hanno masticato libri, ma cinema, videogiochi, fumetti. In letteratura però si chiede di evocare la realtà, non di mostrarla come al cinema. È un lavoro di scavo, con più chiavi di lettura. La parola è tutto».
MANUELA VACCA
30/10/2010