Il fenomeno ultrà: la malapianta razzista cresciuta tra indifferenza e complicità
ANTONIO LEDÀ
Cagliari città razzista? Dal Sant’Elia e dintorni è un coro di puntualizzazioni. C’è chi non c’era, chi non ha sentito, chi ha sentito e non ha capito, chi ha cercato di capire troppo. Erano “buuh” al “razzista” Eto’o - hanno spiegato in tanti - reo di non aver voluto incontrare una figlia (mai riconosciuta) avuta da una ragazza cagliaritana. Pensieri e parole in libertà per nascondere una malapianta che sta mettendo radici anche nell’isola. La Cagliari città aperta che alla fine degli anni Sessanta accolse Gigi Riva e si innamorò di Claudio Olinto de Carvalho detto Nenè - pelle nera e cuore rossoblù - è solo un ricordo. Come le tribune in legno dell’Amsicora, le sparate di Manlio Scopigno, allenatore filosofo, e le coreografie della curva affidate a Marius, capotifoso armato solo di humor. Allora non c’erano tornelli, non c’erano biglietti nominativi e non c’erano nemmeno gli steward.
Altri tempi, altra città. Oggi Cagliari è una metropoli e il popolo della curva è tristemente omologato a quello di altre realtà che hanno scoperto prima la piaga del tifo violento: Verona, Bergamo, Brescia, Torino, Milano, ma anche Napoli e Catania.
Un tifo incattivito che scarica nelle curve rancori esistenziali, frustrazioni e malesseri che col pallone hanno poco da spartire. E pensare che tutto è nato per gioco, con il placet degli addetti ai lavori e la benedizione di mamma tv. Cominciarono i tifosi veronesi con lo striscione “Vesuvio pensaci tu” rivolto ai giocatori del Napoli. La risposta, arrivò quasi subito, in occasione della trasferta del Verona al San Paolo, ed è diventata un cult per gli appassionati del genere: “Giulietta è ’na zoccola e Romeo un cornuto”. Allora nessuno poteva prevedere che dagli sfottò si passasse agli insulti, poi alle minacce e infine alle violenze. Nessuno aveva messo in conto che quelli striscioni potessero trasformarsi in un delirio di stupidità e xenofobia in cui una certa tifoseria si trova perfettamente a suo agio. Ma ha ancora senso definire tifosi quei pochi farabutti che si stanno impadronendo degli stadi?
O ha invece ragione Balotelli quando dice che «il pubblico di alcune città mi fa schifo»? SuperMario è uno che la sa lunga per aver provato sulla sua pelle quanto possano far male i pregiudizi. Lui, bresciano d’adozione, ai “buuh” ha dovuto fare l’abitudine. La Juventus ha avuto la curva squalificata per cori razzisti.
Stessa cosa è toccata al Verona, alla Roma, alla Lazio e perfino all’Inter, squadra più multirazziale di tutte. «Sono pochi e sono matti» ha minimizzato, per anni, il mondo del pallone salvo scoprire che l’imbecillità è malattia pericolosa. Oggi il virus ha cercato terreno di cultura anche al Sant’Elia. Qualcuno ha fatto finta di non sentire ma proprio da Cagliari sembra arrivata la cura giusta.
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