Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Immigrati, l’altra faccia della città

Fonte: La Nuova Sardegna
1 luglio 2010

Parlano Omar Zahwer, neoconsigliere provinciale e Radhouan Ben Amara che siede in consiglio comunale


I quartieri del centro storico sono diventati realtà multietniche



ROBERTO PARACCHINI

CAGLIARI. In città sono circa seimila e considerando la provincia si arriva a diecimila. Gli immigrati stanno diventando parte integrante della vita di Cagliari, con quartieri multietnici come Marina e una presenza qualificata in diversi tettori.
Dall’altro ieri anche la terza assemblea istituzionale della città, quella della Provincia, ha un rappresentante di origini non italiane. Le dimissioni di Federico Palomba, candidato come presidente per l’Idv, hanno fatto entrare nell’assemblea di piazza Palazzo Omar Zaher, vice presidente della comunità palestinese in Sardegna. In consiglio regionale e in quello comunale siede anche il tunisino Radhouan Ben Amara.
«I problemi degli immigrati - precisa Clara De Sousa, brasiliana in Sardegna da tredici anni - assomigliano in parte a quelli degli altri cittadini che vivono in questo momento di crisi: difficoltà a trovare lavoro e un alloggio. In più vi sono tutte quelle norme legate al permesso di soggiorno e a tutto quello che la Bossi-Fini impone. Io, invece, penso che oggi gli immigrati debbano essere considerati una risorsa per questo credo che debbano essere maggiormente sviluppati tutti i momenti di aggregazione e incontro tra le varie comunità e culture».
In questa prospettiva il più anziano dei politici «extracomunitari», Ben Amara, ha recentemente presentato una proposta di legge regionale sull’immigrazione. Al primo punto il consigliere pone il problema della cittadinanza: ottenibile dopo cinque anni con la possibilità di votare nelle elezioni amministrative. «Noi in Italia - spiega Ben Amara - siamo in forte ritardo. In Canada, ad esempio la si ottiene dopo sei mesi, purché si abbia un lavoro regolare». Un aspetto, questo, sottolineato anche da Zaher che assimila la situazione degli immigrati che lavorano regolarmente ma che non hanno il diritto di voto a quella di moderni «schiavi». Nell’antica Grecia, infatti, i non cittadini erano soprattutto gli schiavi che non potevano partecipare all’attività politica, sottolinea Dhaer.
In città le comunità più numerose sono quella cinese, senegalese e «russofona». Sono diverse centinaia le persone, sopratutto donne ucraine, che si occupano degli anziani. «I servizi alla persona - afferma Inna Naletko, responsabile della comunità russofona - sono quelli più richiesti, almeno per la nostra comunità. Ma i problemi da affrontare sono molti, soprattutto per chi deassistere un anziano per l’intera giornata, in particolare l’indisponibilità di tempo libero».
L’ente cittadino attivo verso l’immigrazione è, in particolare, la Provincia che stanzia ogni anno circa 270 mila euro per interventi vari: di mediazione culturale, sostegno ai minori e assistenza sanitaria non pagata. «Ma i problemi da affronatare - riprende Ben Amara - sono ancora tanti. In particolare quelli di carattere culturale. Dobbiamo capire tutti che è necessario un maggiore sforzo di confronto con le culture diverse dalle nostre e che la condizione reale del mondo in cui viviamo è il nomadismo e in questa consapevolezza dobbiamo muoverci».

I CINESI

Il lavoro prima di tutto, dopo anche l’integrazione






CAGLIARI. Mille in provincia, circa la metà a Cagliari, questi i numeri della comunità cinese locale. Le prime migrazioni si sono avute a metà degli anni 80 e oggi rappresentano un’importante realtà commerciale. Nel capoluogo sono infatti oltre centotrenta le attività produttive gestite dai cinesi. «Inizialmente - spiega Zhan Yundian, responsabile della comunità cinese - i primi arrivati a Cagliari avevano aperto dei ristoranti, mentre oggi si tratta di attività marginali. La maggior parte di noi guidano iniziative commerciali al dettaglio o all’ingrosso. Yundian, ad esempio, gestisce un’impresa all’ingrosso che vende prevalentemente abbigliamento. In molti sostengono che la comunità cinese sia chiusa verso l’esterno. «La realtà - precisa Yundian - è che noi quando arriviamo in un posto lo facciamo per cercare di lavorare di più e guadagnare. Per questo siamo protesi sull’obiettivo del creare commercio e lavoro e questo ci assorbe molto anche se cerchianmo di sviluppare iniziative di integrazione». (r.p.)