Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

La favola nera di Etty Hillesum

Fonte: La Nuova Sardegna
15 giugno 2010

Al Civico l’intensa prova dell’attrice Francesca Falchi nell’allestimento con la regia di Giampietro Orrù


Dai diari dell’intellettuale olandese il dramma e la lezione dell’Olocausto


WALTER PORCEDDA

CAGLIARI. Cancellato e rimosso. Nel profondo delle nostre coscienze c’è un angolo rimasto buio. Dimenticato. Una esperienza obliterata dell’umanità occidentale che appena mezzo secolo fa ha assistito, testimone muta, allo sterminio di uomini, donne e bambini. Vittime innocenti immolate dal nazismo e dal suo capo bestiale Adolf Hitler, sull’altare di una pretesa purezza della razza. Strano parlarne di questi tempi, in cui circolano nuovamente discorsi xenofobi e crociate di odio e violenza contro diversi ed immigrati. Ma è proprio al nostro sentire che sono indirizzate le parole di Etty Hillesum, straordinaria donna e martire ebrea che l’attrice Francesca Falchi, con una prova di indiscutibile maturità e bravura ha proposto sabato al Civico di Castello in «Il lupo e il cielo spinato. La favola nera di Esther H.» ispirata dai corposi diari (dal 1941 al 43) che quella intellettuale olandese ha lasciato.
Un atto unico di ruvida forza emotiva e dolorosa testimonianza sull’attuale deriva quotidiana. Si parla cioè di ieri per alludere al presente. Si evoca il passato per esorcizzare un possibile futuro.
Ed è proprio l’involucro quasi metafisico confezionato dalla intelligente regia di Giampietro Orrù per l’allestimento prodotto da Fueddu e Gestu a dare paradossalmente il segno dell’urgenza contemporanea, sgombrando il campo da autoconsolatorie letture storiche. Ecco così lo scorrere delle immagini, repentine e pregnanti di senso, capitoli sfogliati da quei diari scritti con calligrafia minuta e quasi indecifrabile: come se le lettere fossero geroglifici di un altro linguaggio. Quasi che le parole non fossero fini a se stesse ma racchiudessero altre parole e immagini. Un meticoloso e segreto percorso nelle frontiere del proprio intimo. Dialogo privato e pubblico con se stessa e le ragioni dell’esistenza, i misteri della vita e il labile confine della sua fine.
Qui Etty, infaticabile consolatrice di di uomini e donne condannati a finire nell’Olocausto - dove anche lei finirà, assieme ai suoi cari in un giorno di settembre del 1943 ad Auschwitz - avanza con l’incoscienza dei venti anni e la saggezza di chi ha già visto e vissuto tutto. Dove forse, nell’attimo supremo della fine, avrà il tragico risveglio, ultima soglia di chi non doveva e voleva andarsene via per sempre.
Così Etty/Falchi sfoglia la propria esistenza. E quello scavo irriguardoso persino della propria intimità, viene accompagnato puntigliosamente da Falchi, attrice e allo stesso tempo perfetta serva di scena, tra continui cambi di abito - dal passionale rosso rubino che suggerisce l’amore per la vita al bianco immacolato - come se da un frutto, dalla polpa si arrivasse progressivamente al cuore. Essenziale e tragica nel suo passare tra i reperti del vivere, dai libri (il sapere che lascia lucidi anche nel dramma) alle scarpe (un grande cumulo, testimonianza ultima di esistenze mandate al macero), mentre sul suo capo grava minacciosa una selva di coltelli. Appassionata nel raccontare l’amore, quanto perfettamente straniata nell’entrare dentro e fuori una esistenza che danza sul filo della tragedia. Che con oscuro senso profetico si interrogava se «diventeremo folli e vulnerabili davanti a tanto orrore».