DOMENICA, 13 GIUGNO 2010
Pagina 37 - Cultura e Spettacoli
A Cagliari una mostra di opere inedite dell’artista oristanese che visse tra Usa, Canada e Messico Nel suo lavoro figurativo e astratto convivono in un gioco di sottrazione
DANIELA PABA
CAGLIARI. Visioni cromatiche in pochi gesti essenziali. E una mostra di quadri - perduti e ora ritrovati - che racconta la storia di Vanina Sechi, dagli anni Cinquanta fino alla morte avvenuta due anni fa. Figlia di Adelina Giacobbe, cugina di Maria, Vanina, nata nel 1924 a Oristano e cresciuta a Cagliari, ha lasciato la Sardegna per studiare e non è mai più tornata, se non per riposare e dipingere d’estate nelle spiagge di Torregrande. Nel frattempo si laurea a Firenze in Filosofia con Garin e Salvemini, viaggia a Copenhagen per approfondire la conoscenza di Schopenauer e Kierkegaard, e con una borsa di studio approda a Yale, prima donna sarda a mettere piede nella prestigiosa università nel 1966, mentre sua sorella Bice già insegnava fisica nucleare nell’università del Maryland. La vita e la carriera scientifica di Vanina Sechi hanno un contrappunto artistico che condiziona le sue scelte esistenziali e biografiche. Vive tra Stati Uniti, Canada, il Messico. finché nel 1976 la pittura ha la meglio sulla filosofia e Vanina apre, con la complicità della sorella, la sua galleria personale «La Vita Nuova», ad Alexandria, vicino Washington.
È il periodo più felice della sua vita, documentato da recensioni, scritti e fotografie raccolte in due teche discrete all’interno del percorso espositivo. Una fase bruscamente interrotta nel 1984 dalla morte dell’amata Bice, cui segue la chiusura della galleria e l’abbandono di una trentina di quadri in un deposito ignoto, per rientrare definitivamente a Toronto.
Gli stessi quadri costituiscono il corpus della mostra allestita all’ExMa (fino al 4 luglio), ritrovati grazie alla testardaggine dell’ultima sorella Mimì e di sua nipote Laura Sechi, che è andata a cercarli ad Alexandria finché non li ha trovati. Il resto delle opere proviene dalla case di Toronto e di Torregrande, e l’insieme restituisce alla Sardegna lo sguardo della pittrice e la sua personale ricerca. A partire dall’Autoritratto che Marzia Marino, curatrice dell’allestimento, ha posto all’inizio del percorso, un volto evanescente con grandi occhi nocciola in evidenza. Figurativo e astratto convivono nella pittura di Vanina Sechi, in un gioco continuo di scarnificazione di figure e paesaggi che mai si annullano del tutto, neppure nella sperimentazione dell’action painting. Le pittura degli esordi negli anni Cinquanta descrive paesaggi nordici, figure d’acqua e di vento, come la «Silfide» o «Il Salice» ritratto con poche pennellate di bianco luminescente e grigio. Lo sguardo poggia su oggetti minimi, foglie, cactus, paesaggi marini, resi con tratto sicuro, veloce, puro colore disegna forme svuotate dall’interno, in un continuo processo di sottrazione, quasi a cercare essenze senza peso. Un procedimento che si rafforza dopo il folgorante viaggio in Messico, divenuto un soggiorno di quattro anni, segnato dall’irrompere di un cromatismo acceso, tipico di quelle latitudini. Persino l’omaggio all’astrattismo di «Eclipse of the moon» è un paesaggio di aranci, verdi, blu di sapore messicano.
Nell’ultima fase tra Novanta e Duemila, Vanina Sechi privilegia la dimensione materica e sperimenta l’uso della sabbia mista a colore, torna così la luce azzurra e bianca delle spiagge del Sinis. E con essa le creature evanescenti della giovinezza. Solo la guerra del Golfo getta un’ombra di morte nel suo immaginario di purezza.
Avverso la ricerca di forme elementari che l’avvicina a Emily Dickinson, Vanina dipinge nel 1990 «Il Nuovo ordine mondiale nel Golfo Persico-la risata dello scimpanzé». Nel sorriso bestiale della scimmia la pittrice leggeva il volto del generale Schwartz e le sue menzogne. Così come nel soldato realizzato con un collage polimaterico, «No Title», tornano i fantasmi descritti nei suoi diari giovanili: gli spettri ambulanti di fame e di morte che la guerra porta con sé.