Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Lavoro, la mappa della crisi

Fonte: La Nuova Sardegna
31 maggio 2010



Il sindacato lancia l’allarme: governare le emergenze sempre più difficile



Sempre più frequente la spettacolarizzazione delle vertenze

CAGLIARI. Lo scontro fisico sfiorato venerdì in Regione, tra i lavoratori delle due coop di servizi e i dirigenti Sogaer, ha preoccupato non poco il sindacato. L’estate sarà calda sotto tutti i punti di vista. Chi avesse pensato che la città del terziario e del commercio sarebbe stata immune da questi fenomeni, farebbe bene a ricredersi subito. Call-center, edilizia, agroalimentare, per assurdo meno il settore legato all’impiantistica, dimostrano che la crisi non solo è passata, ma che il peggio forse deve ancora arrivare.
Il segretario della Camera del lavoro Nicola Marongiu, dà l’allarme. «La tenda, il blocco, la spettacolarizzazione delle vertenze, l’esposizione del proprio corpo come strumento per rendere visibile il dramma della disoccupazione, ormai non hanno confini. Non siamo ai livelli della Francia, dove non fa notizia il “sequestro” dei dirigenti da parte dei lavoratori a rischio licenziamento, ma il sindacato ha difficoltà a contenere le vertenze dentro ai canali ordinari del confronto. Noi siamo i primi a non ricevere garanzie sul futuro dei lavoratori che rappresentiamo: che andiamo a raccontare?». Nel cagliaritano sono circa 8mila i dipendenti dei call-center, grandi piccoli e piccolissimi; è il settore che ha fornito il maggior numero di nuovi occupati in questi anni, una occupazione di qualità, che non fa solo televendite ma anche assistenza di valore. La crisi però è violenta, ed è su due livelli: il primo è di settore, legato alla concorrenza con i gruppi d’oltretirreno, il secondo è specifico e nel caso di Vol2 riflette le difficoltà economiche del gruppo Omega. Di fronte a queste emergenze, la politica balbetta. «Le differenze tra gli schieramenti sul fronte delle politiche del lavoro - continua Marongiu - non sono emerse. Se non fosse stato per i manifesti e i conflitti dentro alle singole forze politiche o alle coalizioni, difficilmente ci saremo accorti dell’appuntamento elettorale. Ma mentre la politica parla, la crisi va avanti». Marongiu non pensa solo alle centinaia di lavoratori dei call-center che rischiano il posto, ma anche ai tanti dell’edilizia, e dell’agroalimentare, che sono entrati in una spirale perversa fatta di cig, mobilità e licenziamenti. «In questi mesi abbiamo perso un terzo dei lavoratori legati all’edilizia. Imprese come Impredil o Fornaci Scanu risentono pesantemente della crisi, altre come Profersistem sono fallite. La ragione sta nel fatto che i mattoni e i manufatti in cemento quando arrivano dalla penisola, o dall’ex Jugoslavia, costano la metà che da noi. E come se non bastasse il mercato dell’edilizia, e soprattutto delle opere pubbliche, è fermo». L’agroalimentare è moribondo: Unilever di viale Marconi, Zuccherificio di Villasor e la vecchia Valriso testimoniamo la difficoltà dell’intero comparto. La verità è che l’intero sistema produttivo della Provincia sta crollando. E all’orizzonte non si vedono né ricette né strumenti per salvarlo.(g.cen.)


Servono opere pubbliche, mancano i soldi

La politica alle prese con scelte estreme ma coraggiose

CAGLIARI. Il confronto tra l’area metropolitana di Cagliari e le altre nove del nostro paese fa emergere la debolezza di un territorio che rappresenta un terzo della popolazione sarda e quasi la metà della ricchezza prodotta nella nostra isola. Il confronto rispetto alle grandi aree del paese non regge, semmai più interessante quello con Bari e Genova, pur distanti in tutti i parametri.
Ventisette comuni, 1685 chilometri quadrati, superfice più piccola rispetto a Roma, Bologna e Torino, ma più grande di Milano, Napoli e Bari, e una densità demografica bassissima: neppure 300 abitanti per chilometri quadro, nulla rispetto ai 4000 di Napoli e ai 2000 di Milano. Eppure l’area di Cagliari ha una percentuale più alta delle due capitali del Sud (Napoli e Bari) rispetto al tasso di imprenditorialità, con un mercato del lavoro dove chi ha una occupazione è più numeroso di chi è senza, sia pur di poco. A questi dati si può associare il tasso di disoccupazione ufficiale, da noi sotto il 13 per cento, di alcuni punti più basso rispetto ai capoluoghi del sud. Non siamo fanalino di coda, rischiamo di diventarlo.
La struttura produttiva (secondo i dati elaborati da Sardegna Statistiche) rimane lontana da quella dei grandi centri urbani nazionali, ma di un decimo inferiore nel suo complesso a Bari, con gli addetti per il triangolo agricoltura, industria e servizi, pari a 32 ogni cento abitanti.
Questi gli ultimi dati disponibili, risalenti a quattro, cinque anni fa, che fotografano una area metropolitana non disastrata, ma ancora alla ricerca di una identità produttiva. Adesso la situazione è peggiorata. Il fatto che non ci siano operai sulle ciminiere o blocchi ai treni tutti i giorni non significa che tutto vada bene. Per far ripartire l’economia della Grande Cagliari c’è bisogno di investimenti, e nell’immediato, di opere pubbliche. Lasciando perdere i fantasioni progetti di tunnel sotto via Roma, rimangono progetti più a misura di portafoglio, come la sistemazione del quartiere S.Elia, del campus universitario o del completamento della metropolitana di superfice, che da soli potrebbero creare occupazione per mille persone. La palla così passa alla politica, a quella regionale e a quella locale, ai presidenti e ai sindaci in carica e a quelli che verranno eletti nelle prossime ore. Mettere mano al portafoglio comporta però delle scelte, delle rinunce e delle opzioni nette. In poche parole serve del coraggio. «Dove sono coloro che teorizzavano anche per Cagliari il possibile sviluppo di una economia di servizi senza le produzioni primarie, quelle vere? Non voglio fare il profeta di sventura - ammette il segretario regionale della Cgil Enzo Costa - ma continueremo a perdere occupati per altri due anni, sino al 2013». Le tensioni l’altro giorno in Regione rischiano di apparire ben poca cosa.

«La buona politica deve partire dai poveri»

Arturo Paoli missionario 98enne parla del ruolo dei religiosi nella società civile



In questi giorni ospite della comunità di Don Cannavera

CAGLIARI. «Sì, i religiosi devono occuparsi di politica e di economia». Parole di Arturo Paoli, 98 anni, fondatore nel 1957 a Bindua, la frazione mineraria sulcitana, della prima fraternità di Charles de Foucauld in Italia. Poi missionario («esiliato») per quarant’anni in Sudamerica, perseguitato dai generali argentini. Fratel Arturo, settant’ani di sacerdozio, ha occhi vispi e curiosi. Da giovedì è ospite, assieme all’amico sardo Dino Biggio, di don Ettore Cannavera nella comunità La Collina, a Serdiana, dove ha tenuto una conferenza proprio su «religiosità, economia e politica».
La sua esperienza a Bindua, dove è stato anche operaio assieme ai lavoratori del Sulcis-Iglesiente, è stata breve ma significativa e gli ha lasciato la Sardegna nel cuore. Paoli ricorda con chiarezza i grandi presidenti della Regione dell’epoca, da Luigi Crespellani, il primo, a Efisio Corrias. E chiede dei tempi più recenti, ma preferisce non fare commenti.
Nella società italiana si è riaperto da tempo il dibattito, spesso aspro, sul ruolo della religione nella vita civile. C’è chi denuncia interferenze, altri difendono il diritto della Chiesa di occuparsi a voce alta dei problemi sociali. Arturo Paoli ha un’idea chiara. «I religiosi - spiega - si devono occupare di politica e di economia perché la religione cristiana non è fatta di concetti, come la trasmettiamo, ma di progetti. Gesù non è venuto a insegnare una dottrina, non era un dottore di dottrina, è venuto a portare un progetto, il Regno di Dio, un progetto di vita per armonizzare le relazioni umane». Paoli non si riferisce a una militanza attiva. «Occuparsi di politica - dice - non significa pensare alle strutture politiche, ma significa favorire le relazioni sia tra gli uomini sia tra le classi», significa «sollecitare ai politici le scelte favorevoli per la giustizia e la pace». E torna sul progetto dell’«armonizzare». Afferma infatti: «Si può e si deve armonizzare il mondo con le relazioni pacifiche e amorose». Le ricette non mancano. Innanzitutto bisogna «sconfiggere l’orgoglio e partire dai poveri».
Oggi tutto questo lo non si sta facendo? La risposta è immediata: «No. La globalizzazione è solo un progetto economico e finanziario, e di tecnica, anche delle armi».
Serve un maggior impegno anche dei laici cristiani nella vita politica ed economica come ha detto Benedetto XVI proprio nella visita a Cagliari? «Sì certo, il Papa ha ragione a chiederlo». Poi Arturo Paolo aggiunge: «Purché siano cristiani». (f. per.)