Forma e poesia nel jazz
Battute finali per la rassegna di Shannara. Appuntamento con la classe di Rava che ammira Gershwin e loda i sardi: «Salis? Un genio». di Valentina Lo Bianco
Le sonorità americane degli anni ' 20 esploderanno stasera al Massimo di Cagliari per uno degli ultimi e sicuramente più attesi appuntamenti con la rassegna “Forma e poesia nel jazz”, targata Shannara. Torna nell'Isola un grande maestro dell'improvvisazione, Enrico Rava che, accompagnato dagli otto musicisti del P.M. Jazz Lab, propone “Gershwin & more”, con una rilettura dell'opera del compositore americano: «Suoneremo per quasi tutto il concerto le sue composizioni, ma rivisitate alla nostra maniera. Per il resto decideremo sul palco » spiega il trombettista triestino di nascita, ma internazionale di professione.
IN PIÙ DI QUARANT'ANNI di carriera (risale al 1972 il suo primo album Il giro del giorno in 80 giorni alla testa di un quartetto) e dopo essersi esibito nei più importanti templi del jazz mondiale, Rava offre una personale lettura dell'evoluzione del jazz: un genere che oggi non risulta più ostico all'ascolto e riservato a un pubblico di nicchia, ma decisamente più popolare: «La storia del jazz è caratterizzata da continui alti e bassi: se negli anni '30 in America era veramente popolare, l'arrivo del free jazz, nei Sessanta, ha allontanato e infastidito quel pubblico. Era diventata la musica degli intellettuali bianchi.In Italia invece, ci fu una riscoperta e molti si appassionarono ». Poi arrivarono i Settanta, il periodo caldo della contestazione e il divieto per ragioni di ordine pubblico di organizzare i grandi concerti rock che raccoglievano moltissima gente: «Proprio in quel periodo le nostre esibizioni hanno raggiunto numeri incredibili. Mi è capitato di suonare davanti a 30mila persone - prosegue divertito Rava -. Tutti quelli che avevano voglia di ascoltare musica, ma non sapevano dove andare a parare arrivavano da noi. Negli anni successivi c'è stata poi una caduta verticale». Fino al Duemila: oggi si è tornati al pubblico di massa che riempie i teatri: «È un fenomeno tutto italiano. Negli Usa, tolte le grandi città come New York, San Francisco, in misura minore Boston e Washington, non hanno idea di cosa sia il jazz. Il merito di questa nuova ondata di appassionati credo sia un po' merito nostro, legato anche al fatto di essere diventati dei “personaggi” ». E forse c'entrano le apparizioni televisive di alcuni, e gli interventi sempre più frequenti in radio, tra esibizioni e interviste che rendono più “normali” quelli che un tempo erano considerati artisti inarrivabili. «Mi capita di incontrare giovanissimi che, magari non conoscono nomi internazionali di chiara fama, ma si appassionano agli artisti italiani. Mi vengono in mente Fresu o Bollani per citarne alcuni. Non so se sia un bene o un male, ma è quello che capita». A proposito di Fresu, cosa ne pensa un maestro indiscusso come Rava dei musicisti sardi? «Lo dico senza piaggeria: penso che Antonello Salis sia un genio. È unico, non assomiglia a nessuno e qualunque cosa faccia, con qualsiasi formazione, ha la rara dote di far scattare col pubblico la magia pura. Meriterebbe uno spazio ben più ampio di quello in cui si muove, ma in realtà credo dipenda da lui (sorride) con quel suo carattere fuori dalle regole. E poi conosco bene e stimo profondamente Elena Ledda, per non parlare di Luigi Lai che non è un jazzista, ma accidenti che musica...».