Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Sardegna come un'infanzia Nuoro onora suo figlio Ciusa

Fonte: L'Unione Sarda
20 maggio 2010


Oggi l'inaugurazione del museo dedicato allo scultore Il nucleo della collezione sono i gessi della Regione

 Quanto contano i ricordi dell'infanzia. Quanto orientano i destini di ciascuno, tornando per vie segrete ad improntare un gesto, uno sguardo, o una scelta di vita, un dono naturale. Quanto conta, insomma, quel certo pomeriggio della nostra infanzia, così profondamente parte di noi che, senza, nemmeno riusciremmo a concepire la nostra vita, parafrasando Paul Bowles. Per un artista può divenire l'essenza della propria arte. Nivola bambino vede sua madre rammendare un lenzuolo bianco, e gli pare, quello, il paesaggio innevato attorno a Orani, che disegnerà per tutta la vita con il segno svelto della china e tradurrà nelle superfici lisce e bianche delle sue Madri. Il piccolo Francesco Ciusa assiste a un episodio che pare un set letterario della Deledda. E lo racconta così: «Nella Serra di Nuoro avevano ancora ucciso un pastore, sgarrettato quasi tutto il bestiame, e del figlio, sparito, non si sapeva nulla. La vedova, seduta per terra, con in grembo la piccola figlia, rimasta unica, veniva terrorizzata dai singulti di pianto delle prefiche, spiegate intorno al focolare spento … la donna, abbandonata nel centro del focolare la sua piccola creatura, si drizza sulla punta dei piedi. Tutta la sua figura è terribilmente maestosa. Più terribile ancora, solleva le braccia, incrociandole nei polsi, dopo averle girate dall'alto al basso, e disegnando un cerchio che le congiunge sul punto dove si genera la vita e, facendo le fiche con ambo le mani, grida con voce rauca, quasi bestiale: “A tottu su mundu, chi si sicchete!!”».
Nel 1910 lo scultore nuorese dà corpo a quel ricordo e compone “Dolorante anima sarda”, possente vedova seduta, con un bambino in piedi fra le gambe, che alza le braccia, allo stesso modo della madre descritta, come imprecando. Alcuni anni dopo, decide di mutilarne le braccia, da cui l'aspetto peculiare della scultura, con le maniche pendule del giacchetto coi bottoni e, sulle spalle, solo lo sbuffo delle maniche della camicia.
LO SPAZIO Ci sarà anche questo gesso - ma non sarà l'unico “dolorante” - nel nuovo Museo Francesco Ciusa, che si inaugura stasera alle 18, nel rinominato Tribu, “Spazio per le arti”, di piazza Santa Maria della Neve, ex tribunale divenuto museo permanente, quello di Ciusa, e luogo per mostre temporanee, come quella in corso sui progetti d'architettura di Nivola (prorogata fino a fine giugno). Una riconversione necessaria - per la città e per Ciusa -, che inserisce Tribu in quel circolo virtuoso di luoghi culturali nuoresi che dal Man sale alla Biblioteca Satta, alla casa della Deledda, al Museo Etnografico, passando per quell'altro luogo di cultura, non pubblico, che è la casa editrice Ilisso, che del nuovo spazio museale è l'artefice. L'apertura di un museo è per una città segnale di crescita, di consapevolezza della propria storia e affermazione di valori universali, quelli che l'Arte ribadisce in ogni sua declinazione, contrapponendoli al degrado, non solo estetico. L'apertura di questo museo, in particolare, e a Nuoro, città natale di Ciusa (vi nacque nel 1883, quarto di sette figli) chiude idealmente il cerchio di un “umanesimo nuorese”, di quella straordinaria confluenza di idee e sensibilità che marca l'inizio del Novecento, nella città barbaricina, con la compresenza di Grazia Deledda, Sebastiano Satta, Antonio Ballero e, appunto, Ciusa.
OJETTI È giusto che il luogo di questa colta gravitazione saluti oggi la nascita di questo museo, che ha il suo nucleo fondamentale nelle nove sculture in gesso della Regione, ma che si arricchisce anche di altri eccellenti opere, in terracotta e pasta marmorea, più disegni e documenti d'archivio. Pezzi meno visti, rispetto alla sopracitata “Dolorante anima sarda”, o alla nota “Madre dell'ucciso”, che nel 1907 approda alla Biennale di Venezia, in mezzo a nudi di Rodin, Graziosi e De Lotto e diventa, quest'opera di uno sconosciuto sardo ventiquattrenne, «la più importante rivelazione della mostra di scultura», come scrisse sul Corriere della Sera Ugo Ojetti. Ciusa diviene così «una specie di Giotto isolano, passato dalla miseria degli esordi al radioso trionfo di Venezia», scrive Giuliana Altea nella monografia Ilisso. Ma non si fa prendere dal successo, che gli porta anche un'offerta di lavoro negli Stati Uniti, o che lo avrebbe reso riconoscibile in qualsiasi centro della Penisola. Torna in Sardegna, per fare corpo con l'ambiente intellettuale isolano, impegnato su temi di rinascita civile, morale e intellettuale. Sente come un monito le parole dell'amico Satta: «Se sei debole parti, se sei forte ritorna». Dopo poco sposa Vittoria Cocco, infondendo da lì un supremo senso della famiglia in molte sue sculture, scatole e bassorilievi, attraverso un personale stile secessionista. Le mani affusolate, per esempio, sua cifra inconfondibile: “La campana”, del 1920, vede tre mani, una femminile, spuntare dal manto-campana del padre per posarsi sul bambino; il bassorilievo “La famiglia protetta” è un intrico di mani protettive fra genitori e figli. Come il cuore, che nelle terrecotte decorate a freddo (Ciusa aveva fondato a Cagliari, nel '19, la manifattura ceramica SPICA), diviene un quasi marchio, nell'alternanza rosso-blu o rosso-nero, maschile e femminile.
PADRE E poi le diverse “paternità” scolpite (anche nel bellissimo “Sacco di orbace” del '22 ). Verrebbe voglia di conoscere di più del suo rapporto col padre Giacomo, intagliatore di legno. Il percorso museale si apre con la ricostruzione del “Monumento a Sebastiano Satta”, eretto nel '34 a Sant'Onofrio ma in seguito distrutto dai vandali, cui è scampata solo la bellissima testa del poeta. Come distrutto fu il suo studio di via Alghero, a Cagliari, durante i bombardamenti del '43, con tutte le opere che conteneva. Il Museo Ciusa, col suo marchio tondo di chicchi di grano portati dalle formiche (desunto da quello SPICA) e col suo invito riproducente “Il bacio”, apre. E questo è il più grande risarcimento al più grande scultore sardo.
RAFFAELLA VENTURI

20/05/2010