Dopo gli errori azzurri agli Europei, i ricordi di chi ha rischiato di perdere il treno giusto
Campionario di rigori sbagliati da politici, studiosi e scrittori
Dalla mancata candidatura alla caduta, passando per il rifiuto di una docenza.
Lo chiamavano the kick of death perché, secondo la cultura anglosassone battere un calcio di rigore era talmente facile che chi lo avesse sbagliato, sarebbe stato passibile di arresto immediato. Per fortuna dei calciatori, quella regola praticata in Irlanda del Nord non fu adottata quando il football venne codificato, nel 1863, in una taverna londinese. De Rossi e Di Natale, i due azzurri che hanno sbagliato i rigori decisivi nei quarti di finale degli Europei con la Spagna, dunque, possono stare tranquilli: per loro niente galera.
E i “calci di rigore” falliti nella vita? Talvolta si rivelano vincenti, a lungo andare. Altre volte si pagano a caro prezzo. «Nel 1994», racconta l'assessore comunale alle Politiche sociali Anselmo Piras, «ero sul punto di candidarmi per le elezioni regionali. Ci pensai e ci ripensai ma, alla fine, rinunciai. Perché? Erano i tempi in cui la DC si era appena sfaldata ma ancora si ragionava con i criteri della Prima repubblica. Mi dissero che, per essere eletti, occorrevano diecimila voti; io potevo arrivare a tremila. Riuscite a immaginare la mia rabbia quando scoprii che a un candidato furono sufficienti 1.300 voti per entrare in Consiglio?». Ci può essere una parziale consolazione: questi calci di rigore possono essere battuti ogni cinque anni. «No, nessuna intenzione di candidarmi alle prossime elezioni: sosterrò un rigorista più bravo di me nel calciare dagli 11 metri».
Sul fronte politico, il presidente della Provincia Graziano Milia ha qualche piccolo rimpianto. «Il rigore che ho fallito? Non essere riuscito a godermi mio figlio quando aveva sette, otto, nove anni. Fortunatamente la vita dà sempre una seconda possibilità: quello che non sono riuscito a fare allora, lo sto facendo ora». C'è anche un rigore recente per Milia: ancora, però, non si è capito se è entrato in rete o meno. «Dieci giorni fa ho pubblicato un intervento su L'Unione Sarda : all'assemblea regionale del PD, qualcuno l'ha letto come una mia autocandidatura alla presidenza della Regione. Cosa che assolutamente non era: ho risposto a questo compagno di partito che il mio non era il programma da presidente della Regione ma semplicemente la tesina di terza media di mio figlio».
Calci di rigore politici. O, magari, professionali. «Qualche anno fa», racconta il ginecologo Gian Benedetto Melis, «vinsi in concorso da docente ordinario nell'università di Pisa: sarei potuto restare in Toscana e, invece, decisi di rientrare a Cagliari. Un errore, almeno inizialmente: se fossi rimasto a Pisa, mi sarei evitato tanti problemi». Ma i conti si fanno sempre alla fine. «Alla lunga, sono contento di essere tornato a Cagliari».
Il mondo del lavoro è quello nel quale ci si trova a battere il maggior numero di calci di rigore. «Anche se io», interviene il preside della facoltà di Giurisprudenza Massimo Deiana, «ho sempre cercato di non trovarmi nella condizione di far decidere il mio futuro da un calcio di rigore».
Esattamente il contrario di quello che è capitato al giornalista e scrittore Francesco Abate. «Rigori professionali? Ne ho sbagliato un'infinità». Ma lui non si è fatto mancare niente: è riuscito a fallire dagli undici metri anche in altri settori. «Alla fine dell'anno quando ero in quarta ginnasio, organizzammo una festa a Costa Rey nel corso della quale era in programma anche una sorta di “Giochi senza frontiere”. In quel periodo, mi piaceva tantissimo una ragazzina che, però, aveva occhi solo per gli sportivi. Pensai che vincere la gara con i sacchi avrebbe fatto sì che mi notasse. In effetti, mi notò ma solo perché caddi in maniera goffa, facendo ridere tutti». Ma, anche in questo caso, tutto è bene quel che finisce bene. «L'ho rivista qualche mese fa dopo circa trent'anni: mi è andata di lusso. Il tempo non è stato generoso nei suoi confronti».
MARCELLO COCCO
24/06/2008