Teatro d'Autore – ARTICOLO UNO. Lavoro un secolo di passione.
LA FOLLA regia King Vidor e
TEMPI MODERNI regia: Charles Spencer Chaplin
1 febbraio 2010, ore 20:30, Teatro Sant'Eulalia Cagliari
Iniziano gli appuntamenti della rassegna cinematografica curata da Gianni Olla, per la stagione de Il crogiuolo “Teatro d'Autore – ARTICOLO UNO. Lavoro un secolo di passione”, lunedì 1 febbraio 2010, alle ore 20:30, presso il Teatro Sant'Eulalia di Cagliari, verranno proiettati, con ingresso libero i film LA FOLLA regia King Vidor e TEMPI MODERNI regia Charles Spencer Chaplin.
La proiezione verrà preceduta da una conversazione con il critico Gianni Olla.
L'iniziativa è realizzata in collaborazione a F.I.C.C. e Società Umanitaria – Cineteca Sarda.
Presentazione del curatore
Raccontare e mostrare il lavoro. Tecnologia, alienazione, rivolta: un diagramma cinematografico novecentesco
Il cinema non dice il lavoro. Questo pensa, motivandolo, Rossana Rossanda che pure cita in un bel volumetto di qualche anno fa (La sortie des usines. Il lavoro industriale nei cento anni del cinema) molti convincenti esempi di film “sul” lavoro.
La contraddizione è facilmente spiegabile con la dimensione sintetica del montaggio cinematografico, che taglia – secondo quando affermava un produttore hollywoodiano – le parti noiose della vita. E quale mai spettatore può appassionarsi alla “noia” o alla “fatica”. Eppure Cesare Zavattini sognava un film in piano sequenza – cioè con il tempo reale che coincideva con il tempo cinematografico – dove la giornata di un calzolaio fosse filmata anche e soprattutto in rapporto al suo lavoro, alla specifica creatività ma anche alla ripetitività dei gesti.
Questo tipo di pellicole ci sono comunque e ci sono state fin dalle origini del cinematografo. Appartengono al documentario antropologico o più specificamente all’etnofilm. Sono state storicamente catalogate come estranee al mondo dello spettacolo, anche se è oggi vi sono rientrate dalla porta principale come “memorie”, veicolate soprattutto dalla televisione, di un mondo lavorativo che non esiste più.
Tali sono, giusto per fare degli esempi minimi, i documentari siciliani di De Seta e Alliata sui pescatori e i minatori, o quelli di Fiorenzo Serra sulle artigiane che lavorano l’asfodelo in Barbagia o sull’industria dell’argilla a Oristano.
Ma pure, anche se ci riferiamo alla storia dello spettacolo cinematografico – cioè ai film per i quali si pagava e si paga un biglietto – l’indicibilità/invisibilità del lavoro appare come un falso problema.
Ad esempio, per molti spettatori illuminati dal cinema post bellico un film sul lavoro è “Ladri di biciclette” che, a rigore, non lo è affatto (c’è un’unica sequenza in cui il protagonista viene visualizzato mentre attacca un manifesto), ma comunque racconta benissimo una società, storicamente definita, in cui la ricerca di un lavoro – qualunque lavoro – è l’attività principale dei suoi membri.
Dunque il punto di partenza di ogni confronto su cinema e lavoro non può che essere la possibilità o meno di trovare analoghe riflessioni. E immediatamente ci si ricorda che i Lumiere filmavano anche il lavoro e non solo le cerimonie dei reali o dei governanti e che, dopo di loro, documentari e film finzionali hanno spesso colto lo spirito del tempo. Il Novecento è appunto dominato da diverse mitologie che hanno a che fare anche con il lavoro e la fatica: il modernismo futurista, la grande fabbrica dentro la grande metropoli urbana, e subito dopo la tecnologia che pare offrire al mondo un’ultima fallace illusione teorizzata dai movimenti post sessantotteschi: “Lavoro zero, salario intero. Tutta la produzione all’automazione”.
Su questi miti si sono confrontati molti maestri e, anche in questo caso, a tanti spettatori capita di pensare, a proposito della schiavitù del lavoro seriale, agli uomini-robot di Metropolis.
Chaplin, attualizzando la fantascienza di Fritz Lang, trasferirà la macchina oppressiva che inghiotte gli operai nei “tempi moderni” del taylorismo e del fordismo.
King Vidor si spingerà ancora più in là anticipando quella società di massa in cui il lavoratore – operaio o impiegato – è dentro una macchina totalizzante che include non solo la fabbrica o gli uffici, ma anche il tempo libero, il divertimento, la famiglia. Siamo già – ed è appena il 1929 - a Adorno e Marcuse.
Per contrasto, la stessa tecnologia serve ad Eisenstein per raccontare la liberazione dalla miseria. Una scelta esteticamente straordinaria che, sul piano ideologico, si estende a tutto il cinema di regime o puramente governativo: le città di fondazione del fascismo, i sani lavoratori nazisti, le grandi opere del ”new deal rooseveltiano” e poi nel dopoguerra, la grande ondata di documentari che mostrano la nascita delle dighe, delle autostrade, delle metropoli moderne. Anche in questo caso c’è il mito della scomparsa della “fatica” del lavoro. Un’utopia che corre trasversalmente nel comunismo e nel capitalismo e che andrebbe invece verificata nei film di Ivens o di Grierson: l’uno narratore verista, quasi zoliano, della miseria delle miniere del Belgio, l’altro cantore, nei suoi documentari, della working class inglese e della dignità del lavoro. In questo simile o precursore di Ken Loach, unico regista che oggi, in tempi di post rivoluzione industriale, sa raccontare il mondo degli operai – dentro e fuori la fabbrica – senza miti.
Infine, nella società del benessere ritornano in campo vecchi problemi e vecchie visualizzazioni: i minatori che si asserragliano in fondo ad un pozzo, i giovani che si ritrovano nel grande Moloch della società di massa, come nel fordismo/taylorismo americano. Insomma si ricomincia a raccontare il lavoro.
Gianni Olla
LA FOLLA (The Crowd)
Regia: King Vidor – Soggetto e sceneggiatura: King Vidor, Harry Behn, John Weaver – fotografia: Henry Sharp – montaggio: Hugh Wynn. Intepreti: James Murray, Bert Roach, Eleonor Bordman, Estelle Clark. Usa – 1928 – B/N – 104’
L’ironica storia di una coppia di americani medi, piccoli borghesi, che aspirano all’amore, al matrimonio, a una felicità semplice, ma sono frustrati in ognuna delle loro aspirazioni dalla lotta per l’esistenza. “Come argomento il film era l’opposto di tutte le convenzioni hollywoodiane, e le sue descrizioni delle dure realtà della disoccupazione, dei miseri traffici, dei futili sogni, dell’oppressione dell’individuo che cerca di emergere nella palude di un sistema che li imprigiona, erano in acuto contrasto con le idee prevalenti della Coolidge prosperity. Vidor portò alla luce l’immensità della città, la sua velocità e indifferenza. Spaziando con la macchina da presa sulla metropoli, su per i grattacieli, attraverso le strade affollate, l’obiettivo sceglie un enorme grattacielo, il simbolo della città moderna, lo percorre all’insù, sempre più su, scorre sull’interminabile facciata di finestre, carrella attraverso una di esse, in un ufficio dove centinaia di impiegati irreggimentati, tutti simili l’uno all’altro, sono assorti nello stesso genere di lavoro, dietro identiche scrivanie, e sceglie un impiegato in particolare, il protagonista della storia, che cerca di elevarsi al di sopra della massa. Era una presentazione di grande efficacia, che definì la tonalità del tema in modo nuovo e attraente. Assai incisive erano anche le scene che descrivevano le degenerazioni della vita familiare. La precisa descrizione dell’abbandono in cui vien lasciata la casa, il crescente estraniarsi dei coniugi fra loro, a mano a mano che il loro bisogno di denaro diviene più assillante, ricordavano scene simili in Greed di Stroheim, dimostravano l’adesione di Vidor al realismo”. (Lewis Jacobs)
TEMPI MODERNI (Modern Times)
Regia: Charles Spencer Chaplin – Soggetto, sceneggiatura e montaggio: Charles Spencer Chaplin – fotografia: Rollie Totheroth. Interpreti: Charles Chaplin, Paulette Goddard, Henry Bergman, Chester Concklin, Allan Garcia. Usa 1936 – B/N – 86’
I gesti ripetitivi e i ritmi disumani della catena di montaggio minano la ragione del povero Charlot che viene anche usato come cavia per sperimentare una macchina infernale, la mensa automatica, in grado di far risparmiare tempo ai lavoratori in pausa pranzo. Alla fine del turno, impazzito, Charlot, viene “inghiottito” dalla stessa catena di montaggio. Finirà in un ospedale psichiatrico.Dimesso, vaga per la città e casualmente raccoglie una bandiera rossa di segnalazione caduta da un mezzo in transito e la agita per richiamare l'attenzione dell'autista, senza accorgersi che dietro le sue spalle si sta aggregando un corteo di disoccupati che marciano agitando anch'essi delle bandiere. Charlot, ritenuto il capo degli scioperanti, viene arrestato. Viene liberato per buona condotta, ma nel frattempo, è esplosa la grande crisi: le fabbriche chiudono e durante un’altra manifestazione, il padre di una ragazza, amica del protagonista, viene ucciso dalla polizia. Insieme alla ragazza, Charlot cerca di arrangiarsi tra lavori precari e piccoli furti. Finisce di nuovo in prigione, volontariamente, per poter mangiare; quindi in un cantiere navale e subito dopo in un grande magazzino e poi di nuovo in fabbrica. Infine, il successo come cantante e attore in un ristorante di lusso, sembra il preludio alla felicità, ma la polizia irrompe nel locale per arrestare la sua compagna. I due fuggono nuovamente.
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