Vittorio Sgarbi
Dove non sono le sorelle Coroneo?
Ci sono aspetti, dal punto di vista critico, non ancora chiariti nella vicenda di Giuseppina e Albina Coronèo, le sorelle sarde del Novecento, la cui reputazione non è ancora pari al loro merito. Che le sorelle Coronèo siano ancora delle artiste ragguardevoli, non può essere messo in discussione. Ma in quale ambito collocarle? Si è detto, correttamente, che la loro attività s’inserisce in un più vasto impegno di riabilitazione, in senso creativo e produttivo, delle ricerche artigianali locali, nei nuovi scenari, materiali e culturali, della civiltà industriale. Una riqualificazione che si manifesta in uno “stile collettivo”, condiviso con le arti “maggiori”, investendo le abitudini del quotidiano, secondo una tendenza che appartiene al Modernismo del tardo Ottocento (soprattutto l’esperienza di Arts and Craft).
Ma fino a che punto può essere considerato artigianato, anche in chiave moderna, una produzione che, come è nelle Coronèo, non intrattiene alcun rapporto con la serialità, e si nega al minuto commercio? L’unicità e la non riproducibilità sono tipiche dell’arte, e propriamente dell’arte più libera e nobile, estranea al valore economico. Artigianale può essere ritenuto, semmai, l’impiego di determinati materiali, come il panno, la carta, il ricamo, lo spago, il fil di ferro, con i quali le Coronèo, muovendosi in una direzione espressiva “povera” e “precaria”, in cui il risultato finale si esalta tanto più quanto più dimessa è la situazione di partenza, realizzavano le loro creazioni, solo convenzionalmente definibili “pupazzi”.
Negli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta del secolo scorso, i materiali rientravano nell’ambito della produzione artigianale; ma già negli ultimi anni di vita di Giuseppina, le stesse materie erano entrate a pieno titolo, e il confine dell’arte “maggiore” con quella applicata era molto più labile, e i materiali poveri usati in modo innovativo dalle Avanguardie, secondo motivazioni peculiari come l’unicità, la non commerciabilità, il recupero di una natura diretta “rude”, della materia che trovano corrispondenza con le intenzioni delle sorelle cagliaritane, malgrado la totale diversità dei risultati. Non è certo il caso di interpretare il sofisticato gusto delle Coronèo come un’anticipazione dell’Arte Povera, ma qualche cosa, nel compiacimento di riciclare materie di poco conto, fondi di ripostiglio, stoffe recuperate in un cassetto, potrebbe suggerirlo. Il riferimento all’Arte Povera è pertinente per altri versi. L’impiego di materiali anomali, anche attraverso il riuso, comporta che le opere così realizzate non siano classificabili nell’ambito delle discipline artistiche canoniche. Un’opera di stoffa di Alighiero Boetti non può essere ritenuta una pittura, né una scultura, a cui, pure, potrebbe più assomigliare. È opera anfibia, lavoro “concretizzato”, in cui la componente concettuale, ai fini del suo significato, è non meno determinante di quella materiale.
E se l’aspetto concettuale nelle Coronèo è irrilevante, apre la strada alla classificazione della tipologia delle loro opere. Sono opere con precise finalità artistiche. Se volessimo indicarne le maggiori affinità con le discipline tradizionali, si potrebbe dire che si tratta di sculture “morbide”, per via dell’uso prevalente del tessuto. Se invece volessimo farci capire subito, potremmo adottare la definizione di “pupazzi”, a patto che si vogliano appunto intendere come creazioni artistiche in materiali morbidi, assemblati attraverso il cucito. L’importante è accordarsi sulla loro ambizione alta, sul “dove non sono collocabili”, parafrasando il titolo dell’articolo con cui Gio Ponti, nel 1946, proponeva all’attenzione nazionale le Coronèo, piuttosto che sul “dove sono”. Altro punto da chiarire è il rapporto che l’arte delle Coronèo ha con il cucito, tradizionale mansione femminile, e, attraverso di esso, con l’immaginario espressivo delle donne sarde, e non solo. In altri termini, occorre stabilire fino a che punto l’arte delle Coronèo può considerarsi prettamente femminile. Non c’è dubbio che l’aver impiegato, in modo esclusivo, tecniche di tipica pertinenza domestica, con la chiara volontà di attribuire loro finalità espressive diverse da quelle artigianali, in linea con quelle normalmente riconosciute alle arti “maggiori”, fa delle Coronèo esponenti consapevoli di una ricerca femminile che, in certi anni, era probabilmente più espressiva di quella praticata dalle donne, mimetizzata a tal punto nell’immaginario del mondo maschile da non essere distinguibile da essa. Allo stesso modo, il ricorso a un archetipo dell’infanzia femminile, la bambola, ovvero le immagini dell’universo simbolico con cui le bambine, attraverso il gioco e la fantasia, si confrontano da adulte, presuppone un legame di tipo psicanalitico prima ancora che espressivo, con l’immaginario femminile.
Ma i “pupazzi” delle Coronèo non sono solo bambole, sono anche, soprattutto, “bamboli”; né sono giocattoli per bambini, perché nella maggior parte dei casi rispecchiano un mondo che è diventato adulto in modo parossistico, non escludendo la vecchiaia e la sofferenza, in forme assai lontane dalla spensieratezza infantile. In ciò consiste la dimensione universale, extrafemminile, delle Coronèo: nel riferirsi, cioè, a una condizione dell’uomo, dominata dall’insensatezza e dal dolore, in un pessimismo cosmico che solo raramente è attraversato da qualche brivido di ironia. Il tutto accentuato, grottescamente, dall’esprimersi attraverso forme simboliche che esemplificano al meglio, nel momento stesso in cui diventano arte e non più gioco, la distanza irrecuperabile con l’infanzia, ovvero con la fase della nostra vita più legata all’illusione della felicità. Ogni vita adulta è il tradimento dell’infanzia, il soffocamento forzato del fanciullino pascoliano che è ancora dentro di noi. Un fanciullino a cui le Coronèo non intendono all’apparenza rinunciare, anche se non può nascondere il suo disincanto, straziato, confrontandosi con la difficile realtà. Non si scherza, con i “pupazzi” delle sorelle Coronèo.
* Dal testo in catalogo ILISSO Edizioni
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