Rassegna Stampa

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Differenze tra coronavirus e influenza: ecco tutto quello che bisogna sapere

Fonte: web sardiniapost.it
26 febbraio 2020

Differenze tra coronavirus e influenza: ecco tutto quello che bisogna sapere


A parlare è un medico, Alberto Zangrillo, primario di Anestesia e Rianimazione all’ospedale San Raffaele di Milano. Il professore spiega le differenze tra coronavirus e influenza. Con un consiglio rivolto a tutti i cittadini: “Non dovete avere paura, ma siccome il Covid 19 si trasmette con enorme facilità, bisogna stare a casa per ridurre il rischio di contagio. E si tratta di una misura necessaria e utile”. Nella struttura del capoluogo lombardo Zangrillo è anche a capo della Terapia intensiva.

La premessa del medico rianimatore fa da cornice alla seconda spiegazione: “Le misure drastiche adottate dal Governo”, che ha  imposto in tutto il Paese il rispetto di un rigoroso protocollo sanitario basato sulla quarantena (leggi qui), “non sono determinate dalla gravità del coronavirus in sé, ma dal fatto che risulta essere più infettivo dell’influenza“. In una ipotetica scala di serietà di una malattia, Zangrillo sostiene che il Covid 19 è più aggressivo “tra le 10 e le 20 volte”. Cioè: se il tasso di mortalità dell’influenza è dello 0,1 per cento, nel caso dei Covid 19 oscilla tra l’1 e il 2 per cento. Si aggiunga il fatto che “il coronavirus non lo conosciamo, quindi tenere un giusto livello di attenzione è necessario. Anche perché gli anziani, i soggetti più a rischio, non sono vaccinati”. Per i bambini, che sotto il profilo sanitario sono ugualmente considerati fragili, il problema invece non sembra porsi. Non ora almeno: “Non sono stati ancora segnalati casi pediatrici gravi”, aggiunge il professore.

Mettendo in relazione il rischio di contagio tra una ‘normale’ influenza e il coronavirus, viene fuori questo quadro che Zangrillo spiega coi numeri. “Nell’arco di una stagione, supponiamo in cinque mesi, l’influenza colpisce di norma circa il 10 per cento della popolazione. Nell’arco dei 150 giorni presi a riferimento, significano circa 6 milioni di italiani, di cui la stragrande maggioranza inconsapevoli” per via di sintomi inesistenti. “La mortalità – continua il professore – è dello 0,1 per cento. Vuol dire 6mila decessi nello stesso periodo di tempo e quasi tutti anziani”. Ma oltre ai morti, ci sono i casi gravi. Le cosiddette complicanze legate all’influenza. “Per ogni malato che perde la vita – va avanti Zangrillo -, supponiamo di avere circa 4-5 pazienti in rianimazione (un quinto), per tenerci larghi, e che tutti vadano messi in terapia intensiva. Vuol dire una criticità dello 0,5 per cento, pari a 30.000 persone in terapia intensiva in 150 giorni. Cioè tra i mille e i duemila al giorno durante tutti i cinque mesi con una degenza media nel reparto di sette giorni”.

Con il coronavirus lo scenario cambia completamente, visto l’alto rischio di contagio e l’aggressività del batterio. L’infettività infatti è pari al 60 per cento, contro il 10 dell’influenza. Calando il dato nel contesto italiano, “in brevissimo tempo, tra i 30 e i 60 giorni – spiega Zangrillo -, si potrebbero contare 36 milioni di malati, di cui la stragrande maggioranza sarebbe sempre inconsapevole”. Tuttavia, con la mortalità stimata tra l’1 e il 2 per cento, i decessi potrebbero essere almeno 360mila e sino a 720mila”.

Sempre stando alla ricostruzione del professore basata sull’aggressività del virus, il Covid 19 rischierebbero di avere complicanze il 5 per cento delle persone infettate, cioè un milione e 800 persone. Di queste, un quinto potrebbe avere bisogno di un ricovero in rianimazione. Il che significherebbe 360mila malati in sessanta giorni. “Ma in Italia – spiega il professore – i posti letto in rianimazione sono 60 ogni milione di abitanti, quindi un po’ meno di 4mila”. Nel caso di 360mila infetti, servirebbero seimila posti letto con un ricovero di un solo giorno, quando invece in patologie come questi la degenza dura in media una settimana. Ecco perché stare a casa è necessario: “Se tutti escono e si ammalano, gli ospedali non riuscirebbero a gestire i casi critici. La quarantena – conclude il professore – serve a ridurre appunto il rischio di contagio. In questo modo nelle Terapie intensive d’Italia si può trovare un posto”.