Rassegna Stampa

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Rubino Suleimanovic: “Io, rom cagliaritano, vi racconto il mio popolo”

Fonte: web sardiniapost.it
13 novembre 2017

Rubino Suleimanovic: “Io, rom cagliaritano, vi racconto il mio popolo”

“I pregiudizi sul popolo rom? Quando mi invitano a parlare in pubblico metto sempre le mani avanti: controllate bene il portafogli, sapete cosa si dice di noi, siamo famosi per essere ladri”. Rubino Suleimanovic, cagliaritano rom di 24 anni, scherza quando gli si chiede di raccontare come vivono i rom in Sardegna: esistono ancora tanti luoghi comuni e una grande diffidenza, sottolinea, ma in fondo qui si vive bene e il razzismo è relegato a qualche episodio. Poi ci sono i problemi sulla casa, il lavoro e i soldi, la difficoltà di sentirsi veramente indipendenti, gli ostacoli per chi vuole arrivare all’università, ma l’integrazione della sua gente, se pure lenta e graduale ormai è una realtà.

Negli ultimi vent’anni sono cambiate tante cose. Il variegato popolo rom, arrivato in Sardegna già nel 1400 e stabile dagli anni Settanta, conta oggi circa 1400 persone, distribuite soprattutto tra Cagliari, Olbia, Monserrato e Selargius. Non sono tutti uguali: ci sono i musulmani, i cristiani ortodossi e i cattolici, i sinti, gli slavi, i xoraxané, i kalderasch, i dassikané. Molti vivono in appartamenti con mezzi propri o con un sussidio comunale per l’alloggio, altri stanno in campi autorizzati, come a Olbia, o abusivi.

Il Consiglio europeo ha raccomandato agli stati membri la chiusura dei campi entro il 2020 ma questa soluzione non piace a tutti: “Prima ci hanno segregato nei campi nomadi e ci hanno obbligato ad adattarci. Ora vogliono che cambiamo vita da un momento all’altro senza che nessuno ci chieda cosa ne pensiamo”, ha sottolineato Dijana Pavlovic, attivista serba che qualche giorno fa a Cagliari ha partecipato all’incontro finale del progetto “Working Roma – Stop alle discriminazioni dei Rom in Europa” organizzato da Anci Sardegna.

E Rubino Suleimanovic è d’accordo con lei: “Non è giusto che altri decidano per noi, non siamo oggetti che possono essere spostati da un posto all’altro. A noi rom, che viviamo qui da decenni, piacerebbe essere coinvolti per pensare insieme il nostro futuro”. Rubino fa parte di una famiglia che è qui da tre generazioni: i nonni sono arrivati dalla Bosnia, ex Jugoslavia, con loro e con i genitori ha vissuto al campo di via San Paolo, sorto negli anni Ottanta alla periferia di Cagliari e chiuso nel 1988 dopo la tragica morte di una bimba per broncopolmonite; l’accampamento è stato spostato a ridosso della strada 554 e infine chiuso nel 2012. I duecento abitanti sono stati sistemati in alloggi singoli tra città e hinterland e da allora il Comune ha messo in piedi diversi progetti di inclusione sociale e sostegno al lavoro.

Cagliari, Olbia e Selargius: il lungo cammino verso l’integrazione dei rom

Investimenti importanti, che secondo Suleimanovic non saranno efficaci senza un reale coinvolgimento dei rom: “È ora che anche noi contribuiamo alla società in cui viviamo, con diritti e doveri”. Sulla decisione di chiudere i campi, ad esempio, ha qualche dubbio. “Allora non ci fu la possibilità per noi di scegliere. Certo c’era il problema dei rifiuti bruciati, ma credo che avremmo potuto risolverlo se ci fosse stato un dialogo, se ci avessero fatto capire come sbagliavamo avremmo potuto rimediare”.

Negli ultimi anni comunque molti si sono abituati alla nuova esistenza: mancano spazi aperti dove poter accumulare e lavorare il ferro, loro attività tradizionale, ma le nuove generazioni stanno imparando altre occupazioni. “Ho fatto corsi di sartoria, parrucchiere, ho imparato ad aggiustare strumenti elettronici, ho lavorato come pasticciere, bidello, fruttivendolo, ho preso la qualifica di mediatore culturale. Mi sarebbe piaciuto continuare a studiare, magari diventare avvocato. Ho tanti sogni e la curiosità di imparare sempre. Certo, trovare lavoro è difficile: sono stato impiegato grazie ai bandi per tirocini e borse lavoro ma una volta finiti i contributi nessuno rinnova i contratti”. Ed ecco il paradosso più grande: “Per noi chiedere l’elemosina è un’umiliazione, a nessuno piace sentirsi dire ‘vai a lavorare’ ma allo stesso tempo in pochi sono disposti a darci un lavoro”.

I pregiudizi? Ancora tanti. Eppure chiacchierando con Rubino scopriamo che i criminali nella comunità rom sono sempre emarginati e isolati, che a parte rari casi non esiste tra loro il femminicidio, che hanno un amore smisurato per gli animali e la natura (“Nella nostra cultura non si mangiano galli, cavalli o asini: sono per noi animali sacri”) e che come alcuni italiani hanno paura di loro, anche i rom temono gli italiani. “Leggiamo le cronache sui giornali e vediamo tanta violenza, tanti crimini contro le persone: quando una di noi sposa un italiano ci preoccupiamo che possa succederle qualcosa di brutto”.

E a proposito di impressioni, ecco come vedono le differenze con gli italiani: “Restano a casa coi genitori anche fino ai cinquant’anni, per noi è impensabile, cerchiamo di essere indipendenti da giovanissimi. Quando fanno la spesa comprano cose per settimane, noi ci organizziamo giorno per giorno. Vediamo coppie che si separano dopo quarant’anni insieme, noi non lo faremmo mai”. Tante, invece, le somiglianze: a parte gli anziani, nessun rom cucina più i piatti tipici riservati ormai alle feste come la pitta o il sarmale, in tavola arriva il menù mediterraneo. Tra i giovani si parla soprattutto italiano mentre la lingua madre si usa con i genitori o gli anziani. Stile di vita, abbigliamento, look dei ragazzi e intercalari sono contemporanei; Rubino, suoi fratelli e suoi cugini frequentano persone diverse e capiscono anche il sardo.

Quanto al razzismo, Suleimanovic ricorda un episodio molto spiacevole dell’infanzia: “Ero a scuola, un’insegnante disse agli altri bambini di non avvicinarsi a me perché ero sporco e potevo avere malattie. Mia nonna, che parlava un ottimo italiano e ha sempre insistito perché studiassi, ha voluto incontrare il preside e i genitori degli altri bambini. Poi ha parlato con la maestra che da quel giorno ha cambiato atteggiamento nei miei confronti. Ma è stato terribile, per un po’ non volevo più tornare a scuola”.

C’è poi il curioso caso del razzismo italo-sardo-rom: “Alcuni rom che vivono in Continente pensano che noi sardi siamo tutti pastori, o che non abbiamo l’acqua calda, le cucine. Sui rom siciliani si dice che siano mafiosi, invece. Insomma, essendo qui da generazioni anche i rom hanno assorbito tutti gli stereotipi peggiori e i luoghi comuni sugli italiani”.