Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

I sindaci: «Non saremo i boia delle famiglie e dei servizi sociali»

Fonte: La Nuova Sardegna
16 settembre 2011

I sindaci: «Non saremo i boia delle famiglie e dei servizi sociali»




UMBERTO AIME

CAGLIARI. Piccoli, molti, medi, alcuni, grandi, tre o quattro, comunque tutti ribelli. Sono i municipi della Sardegna. Di destra o sinistra, centristi o sardisti poco importa. Oggi sono popolati da tanti sindaci in rivolta. Contestatori compatti e pubblici dell’ennesima manovra tremontiana, neologismo che per loro ha lo stesso suono di tramonto, e anche questo è purtroppo un cattivo presagio. Sono scatenati e massicci, nel denunciare subito che l’ultima legge approvata da questo Stato canaglia, avrà sulla gente lo stesso effetto dell’acido muriatico: brutale, devastante, indelebile. Sulla pelle e dentro le tasche.
L’occupazione. Eccoli, schierati, gli amministratori locali, nella sala dell’Ufficio anagrafe del comune di Cagliari, luogo simbolo del peso amministrativo, enorme, che lo Stato scarica da sempre in periferia. Sono una quindicina, tutti in fascia tricolore. Rappresentanza autorevole e imbufalita degli oltre duecento ieri in sciopero per volontà dell’Anci, la loro associazione madre.
La protesta. Con piglio comunicativo, aspetto sempre molto interessante, il presidente Cristiano Erriu, a sua volta sindaco di Santadi, li ha convocati a mezzogiorno («Mezzogiorno di fuoco») in questo stanzone. Ci sono il comune più grande della Sardegna, Cagliari, con 160 mila abitanti, 320 milioni in bilancio compresi gli investimenti, e quello lillipuziano di Baradili, piccolissimo: 92 residenti, 900 mila euro complessivi in conto ragioneria, un condominio. E nel mezzo di questo testa-costa, ecco gli altri: Guspini, Assemini, Sorso, Mandas, Siliqua, Sorso, Domusnovas, Quartucciu, Mara, Pozzomaggiore, Decimomannu, Orotelli, Sini e Sorgono. Sono l’avanscoperta di un battaglione mandato da oggi in poi allo sbaraglio dal ministero alle Finanze, come se «fossimo vittime sacrificali», per tappare la voragine. «Di cui i comuni non sono certo responsabili», sottolinea all’esordio Cristiano Erriu, nel ricordare che gli enti locali incidono solo per il 2,7 per cento sul debito pubblico, un’inezia: «Dunque, non siamo noi gli spendaccioni».
Scialacquatori, mai. In passato li hanno costretti a fare i salti mortali per sfuggire all’incubo della bancarotta, adesso il Governo pretende che diventino peggio di Nerone: «Date fuoco alle città e anche ai cittadini», questo è il sottotitolo drammatico della Manovra. Eppure non solo loro i vampiri. L’indennità di chi governa territori sotto i mille abitanti, 117 casi su 377 in Sardegna, alla comunità costa in tutto appena un milione e 684 mila euro, quanto lo stipendio di sei consiglieri regionali, che invece saranno tagliati chissà quando. La sproporzione è evidente, ma nell’immediato saranno loro, gli amministratori locali, fra i primi, insieme ai compaesani, a pagare il prezzo più alto della «Tremonti-ter». Saranno loro a essere retrocessi a borgomastri, flagellati, azzerati, poi stipati in Unioni fra comuni dall’identità ancora confusa e dai gettoni di presenza persino più cari. È la solita beffa italiana: cornuti e mazziati. Oppure ancora loro saranno obbligati dallo Stato ad aumentare i tributi, a essere spietati gabellieri, a fare i “cacciatori di taglie”, nella lotta all’evasione fiscale, se vorranno recuperare qualcosa dei trasferimenti nazionali e regionali ora dimezzati. «Ma soprattutto noi, che ogni giorno ci mettiamo la faccia, siamo in trincea, subiamo non sappiamo più quanti assalti disperati di gente disperata, dovremo tagliare i servizi, dire no e nient’altro che no a chiunque verrà a chiederci uno scuolabus, nettezza urbana, parchi, servizi sociali, asili, biblioteche, eccetera e eccetera», dice Umberto Oppus, sindaco di Mandas e direttore dell’Anci.
La batosta. È Oppus a elencare i numeri della stangata statale: dai 45 ai 55 milioni di trasferimenti in meno per tutti i comuni sardi. Un’enormità in qualunque modo si rigirino gli zeri: che sono almeno sei con un otto davanti per Cagliari, oppure cinque (40 mila euro) nel municipio di Baradili. «Potrebbero sembrare pochi per chi è abituato a ragionare con i grandi numeri - dice il sindaco Lino Zedda - e invece sono un’enormità per noi». L’anno scorso gli hanno ordinato di tagliare le scuole e lui lo ha fatto, ma allo stesso tempo quest’anno aveva messo in bilancio l’aumento inevitabile della voce trasporti, perché i bambini nelle aule, adesso lontane, vanno pur fatti arrivare. «Ebbene - svela - non potrò farlo, dovrò tagliare quel servizio, addossare anche questa spesa sui cittadini e dire alle famiglie: arrangiatevi». Ma lui non vuole passare per scempiaggine altrui, come il boia di chi è già sul patibolo per colpa della crisi economica. «Lo faccia Roma. Io mai, anche se mi obbligheranno a sottostare al patto di stabilità, che dalla Manovra è previsto persino per i comuni sotto i cinquemila abitanti. E tutto questo mi provoca rabbia, perché da sempre, in Comune, non buttiamo un centesimo. Sia chiaro: me ne frego del titolo di sindaco, mi chiamino pure borgomastro. La verità è che ci vogliono trasformare in succhia-sangue, mentre altri continueranno a banchettare».
Disubbidienti. Lino Zedda e gli altri sindaci ieri al prefetto, rappresentante in loco dello Stato, hanno restituito le deleghe su Anagrafe e Stato civile, a giorni rispediranno al mittente anche un mazzo di fasce tricolori. Paola Pintus, assessore comunale a Cagliari e qui portavoce del sindaco Massimo Zedda, nel pieno della sommossa, parla con un filo di voce. È molto preoccupata: «Siamo ben oltre il baratro - dice - Ai cittadini dovremo dare molto meno di tutto. Sarà la gente a essere schiacciata da questo nuovo centralismo, altro che federalismo». Presto, subito, adesso, i comuni saranno travolti dalla manovra tremontiana e da un patto di stabilità che «negherà alle nostre comunità persino un minimo garantito e umano di servizi». Sarà una carneficina sociale.

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