Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Remo Bodei nella sua Itaca per il premio del ritorno

Fonte: L'Unione Sarda
17 giugno 2010


«B asta con le radici. Non siamo piante». Lo dice con la leggerezza che lo conttraddistingue, Remo Bodei, ma lo dice. Allo stesso modo, ammette che il lamento diffuso per la fuga dei cervelli non lo convince molto. «È bene che vadano. E che tornino». Star fuori fa bene, fa bene coniugare passioni locali e visioni globali. «Un radicamento esclusivo non favorisce l'ossigenazione, del resto l'uomo è abituato ad essere un esule: non è stato forse cacciato dal centro del cosmo? E la Terra non viaggia forse alla velocità di trenta chilometri al secondo, verso la Costellazione del Cane? L'esilio è la nostra condizione umana. E l'esule riuscito è quello che sta bene senza terraferma».
A patto che da qualche parte ci sia una Itaca ad aspettarti. A riempire un intero teatro, per seguire quanto hai da dire.
È successo martedì sera, al Massimo di Cagliari. Dove l'ultima delle due giornate promosse dallo Stabile della Sardegna ha avuto per protagonista il filosofo cagliaritano. «Il meno peninsulare dei filosofi italiani», lo ha definito Richard Rorty, collega statunitense, riferendosi alla sua assenza di provincialismo. «O forse - suole dire Bodei - al fatto che sono sardo».
Già. Che sia cagliaritano, di Sant'Avendrace, lo si intuisce dall'accento, che persiste nonostante sia partito per Pisa e poi per la Germania e per il mondo intero da una cinquantina di anni. Da cinque è Professor in Residence alla Ucla, Università di Los Angeles, e degli americani ha il dono della chiarezza. «Lui legge tutto, anche quello che non è stato ancora scritto», dice Roberta De Monticelli nel presentarlo. Un paradosso, per sottolinearne la profondità - la capacità di capire - affrontando temi come passioni, delirio, bellezza, tempo, storia - anche ciò che non è stato ancora capito, e detto.
“Nostalgia, separazioni e ritorni” è il tema della conversazione di Remo Bodei. E non può che essere questo: per lo spirito del progetto del Teatro Stabile (sostenuto da Comune e assessorato regionale al Turismo), per il “premio del ritorno” che Emilio Floris consegna dopo la lezione al professore, rendendo ancora più veritiera una felice spiritosaggine: «Remo propheta in patria».
Bodei, classe 1938, ringrazia il sindaco e «il presidente Soru, so che è in sala», Roberta De Monticelli e Maria Grazia Sughi, presidente del Teatro Stabile. Si presta affabile al rito dei saluti, agli abbracci delle vecchie amiche e compagne del Siotto, e poi cede alla richiesta di un autografo sul suo La vita delle cose da parte di uno vigile del fuoco in servizio al Massimo. «Per mia moglie Riccarda».
C'è da sperare in un futuro meno buio, se questo avviene. Se un teatro si riempie di spettatori per un intellettuale che ha il dono raro di farsi capire. Non ci sono molti giovani - gli studenti hanno avuto modo di sentirlo in mattinata, nella loro facoltà - ma che meraviglia gli altri. Bodei chiude con i versi di Gavino Pes, «Palchi no torri, dì, tempu passaddu,/palchi no torri, dì, tempu palduddu? , ma la scelta è un omaggio alla Sardegna, non un invito alla nostalgia chiusa, senza costrutto.
Prima, parla di esilio, deportazione, emigrazione. Di una condizione umana che appartiene a tutti, ma anche di uno sgomento dei nostri giorni: i profughi della miseria, delle guerre, dei cataclismi, i sans papiers, gli indocumentados, i desterrados. Perdite collettive di una patria, e perdite che ci riguardano tutti: la nostalgia per il tempo perduto, una madre, una casa, che non ci sono più. «La nostra vita è un continuo alternarsi di separazioni e ricongiungimenti, fratture e saldature. Siamo tutti potati», dice. E stavolta sì, la condizione dell'uomo è quella delle piante.
Quanto al viaggio - così legato alle separazioni e ai ritorni - può essere un viatico (viatge) o una fatica («travel, traballu»). La nostra cultura è sospesa tra queste due accezioni. «E la nostra navigazione è una continua emorragia di vita». Ma la salvezza non è uno sterile ritorno al passato. È la capacità di vivere nel presente, navigare all'infinito, senza cercare un porto sicuro. Del resto anche Ulisse, quando torna a Itaca, è costretto a ripartire, in ossequio alla profezia di Tiresia: «Dovrà viaggiare lontano, portando un remo sulle spalle». Un Remo.
MARIA PAOLA MASALA

17/06/2010